Al di qua (3)

(18 dicembre) Tra le particelle che costituiscono la materia è in corso una interazione ininterrotta, di cui non è mio scopo investigare le caratteristiche, salvo dire che in certi punti essa assume una complessità a cui abbiamo convenuto di dare il nome di vita. In realtà non esiste alcuna differenza tra materia cosiddetta inanimata e materia cosiddetta animata; la nostra definizione deriva esclusivamente da noi stessi, basata, appunto, sulla constatazione di un livello particolare di complessità che notiamo in determinati oggetti (piante, animali).

Generalmente diamo anche a questo livello di reattività il nome di sensi, tra i quali ci sembra primeggiare una sensazione di esistenza soggettiva. Si tratta di ciò che chiamiamo coscienza, che è insieme il presupposto e la conseguenza di tutte le altre sensazioni; ma non ne differisce in nessun modo speciale. Questo quadro dell’attività cosmica è ridicolmente sommario, ma esso ha un vantaggio: indica abbastanza chiaramente la superfluità e illusorietà di speciali rapporti di natura soggettivo-oggettiva, cioè di quella bidimensionalità che fa da secoli la base della filosofia.

In questo continuum non vi è spazio logico nè per una particolare posizione delle varie individualità nè per interventi di natura soprannaturale. Che le cose stiano, più o meno, in questa maniera è sospettato dal tempo dei presocratici ed è stato espressso in modi diversi e frammentari attraverso l’intera storia del pensiero. In questi ultimi anni se ne sono avute tuttavia conferme sperimentali che eliminano ogni possibilità di dubbio, almeno sul piano logico.

Mi limiterò a citarne due, tutte e due frutto di nuove branche della ricerca scientifica.

La prima dipende dalla cosiddetta psicologia cognitiva, la quale ha dimostrato che la sensazione di coscienza individuale non è, nemmeno nell’uomo, indispensabile alla vita; essa può essere, così come gli altri sensi annullata – sperimentalmente o a causa di patologie – o trasferita da un individuo all’altro, senza causare l’interruzione della reattività reciproca tra il senso dell'individualita' e il mondo esterno.

Ha particolarmente impressionato l’esperienza di una giovane ma già molto nota studiosa di neuroanatomia, Jill Bolte Taylor, docente di Harvard, la quale, colpita da un massiccio colpo cerebrale, ha perso il senso della propria individualità ma lo ha poi lentamenterecuperato man mano che avveniva un parziale risanamento dei propri circuiti nervosi. Grazie alla sua speciale competenza in materia psicologica, essa ha potuto minutamente descrivere tutti e due i processi, quello di andata, con la perdita della personalità, e quello di ritorno, man mano che essi avvenivano o subito dopo. Poi li ha descritti in un libro (“My Stroke of Insight,” Plume, New York).

L’altra serie di ricerche appartiene alla biologia sintetica, un campo di studi diretto a generare manifestazioni vitali nella materia cosiddetta inorganica; finora, esso si è limitato al livello microbico, ma il successo in questo campo ha già un immenso valore di principio.


Nel maggio scorso il massimo esponente mondiale di genomica sperimentale, il dr. Craig Ventner, autore della prima decifrazione del genoma umano, e un gruppo di allievi hanno annunciato la creazione artificiale del genoma di un batterio con elementi di chimica inorganica, e il suo trapianto in un batterio di specie diversa; questa macchinetta biologica ha continuato a funzionare. L’esperimento ha indotto l’amministrazione americana a sottoporre l’intero campo di ricerca a una commissione di bioetica, che ha tuttavia dato luce verde per la continuazione degli esperimenti.

Rovine in rovina

(17 dicembre) Giungendo a poche settimane di distanza dal crollo del soffitto della Domus Aurea, la notizia di franamenti e distruzioni irreparabili a Pompei ha causato grave allarme negli ambienti che in America ancora si interessano alla cultura, i quali si domandano, per usare le parole del New York Times, “che cosa facciano la burocrazia e le istituzioni culturali [italiane] oltre ad offrire posti a un indecente numero di fannulloni” (New York Times, 10.12.10). Due giorni dopo, lo stesso quotidiano, vale a dire il principale giornale del mondo, torna sull’argomento per rivelare che “i problemi di Pompei riflettono un’incuria risalente a vecchia data.”


Non per autocitarmi, desidero osservare che lo choc registrato oggi sul piano mondiale sarebbe stato forse minore se si fosse dato un qualunque peso agli avvertimenti contenuti nel mio libro “Roma,” pubblicato in varie lingue (edizione tedesca, 1996; italiana, 1999; inglese, 2005), in cui segnalo da anni l’esistenza in Italia di un incrocio tra corruzione politica e delittuosa negligenza in materia di conservazione del patrimonio artistico, a cui ho dato il nome di “complesso politico-archeologico” e a cui è dovuto il progressivo deperimento di quella che è una delle poche rimanenti ricchezze del nostro paese.


Nell’edizione in cui ho finora trattato più ampiamente il tema, quella pubblicata a Londra nel 2005 e attualmente in corso di aggiornamento per la pubblicazione negli Stati Uniti, sotto il titolo “accessibilità e conservazione del monumenti romani” osservavo: “Il pubblico ha oggi meno accesso ai principali monumenti di Roma di quanto ne abbia mai avuto da vari decenni a questa parte… i visitatori sono lieti di apprendere l’inizio di altamente pubblicizzate campagne archeologiche, ma ciò che questa pubblicità non dice è che per ogni nuovo sito archeologico che viene aperto, due vengono chiusi… La Galleria Borghese è stata restaurata e ridipinta, ma il lavoro è stato così inetto che pezzi della facciata posteriore cadevano a terra a soli pochi mesi dall’inaugurazione… Il tetto della basilica di S. Pancrazio è crollato non durante il restauro, ma subito dopo…Corruzione e clientelismo politico hanno sempre infestato l’Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma a Roma il fenomeno ha avuto un aspetto speciale: una relazione simbiotica tra il potere politico e una vasta armata di antiquari, archeologi e restauratori, dai ranghi traboccanti di beneficiari di nepotismo e clientelismo…”

Al di qua (2)

(27 novembre) “Considerate la vostra semenza:/ “Fatti non foste a viver come bruti,/”Ma per seguir virtute e conoscenza.”


E’ una delle più famose e belle terzine dantesche. Peccato che sia anche errata e non faccia che rafforzare uno dei più antichi. e dei più dannosi, pregiudizi; specificamente ai fini di quella “conoscenza” che il poeta invoca con tanto calore.


Il pregiudizio riaffermato da Dante è che l’uomo sia qualcosa di fondamentalmente diverso dagli animali, cioè dai “bruti”, perchè questo è il significato della parola che egli impiega. Ora, non esiste un atomo di realtà a conferma di quest’idea, e tutto quello che vediamo intorno a noi ci fornisce, invece, una quantità di elementi a sua disprova.


L’errore ha tuttavia sempre avuto l’effetto di mettere gravemente fuori strada il pensiero razionale, come è accaduto per vari altri dello stesso tipo smentiti già da qualche secolo, che mettevano l’uomo al centro dell’universo. E’ stata un’orgia di antropomorfismo di cui si sono sempre fatte complici le religioni e in maniera speciale quella cristiana (la cui inanità ho già avuto occasione di commentare, vedi la mia nota “Al di qua (1)”, del 23 ottobre scorso), e che per fortuna si va avvicinando alla fine.


Di tutti i pregiudizi, di origine biblica o istintiva o filosofica o altra ch
e sia, quello di una superiorità innata dell’uomo rispetto alle bestie è il più radicato e il più antico, e forse per questa ragione è uno degli ultimi a cadere.


Ogni giorno che passa appare chiaro come l’idea in questione sia falsa, grazie all’evidenza proveniente dai più diversi campi dello scibile, dalla biologia evolutiva alla zoologia e dall’eziologia alla psicologia cognitiva.

Le ricerche più recenti smentiscono innanzitutto l’affermazione di Dante, che gli animali sono incapaci di “virtute,” sprovvisti, cioè, di senso morale. Le tendenze alla base di ogni postulato morale, ossia l’altruismo e il senso di comunità, sono invece empricamente riscontrabili, perlomeno in germe, in ogni essere vivente. Curiosamente, proprio per effetto di un adattamento genetico, cioè nel senso invocato, sempre a sproposito, da Dante quando emette il suo accorato appello: “Considerate la vostra semenza.”


E’ interessante tuttavia constatare che mentre la prima delle due caratteristiche fondamentali di cui Dante dà erroneamente la privativa all’uomo, cioè la “virtute”, è oggetto di una sempre più vasta indagine scientifica negli animali, la seconda, che Dante
indica come “conoscenza” (anzi lui impiega la parola fiorentina più arcaica, “canoscenza,” che le versioni attuali del suo poema generalmente modernizzano), non è stata ancora fatta oggetto dell’indagine che meriterebbe.


E’ ben vero, come dice Dante, che negli esseri umani il desiderio di sapere è più potente che in qualunque altra specie, in ovvia corrispondenza con la crescente complessità di cui l’evoluzione ha dotato il loro cervello; questo desiderio può giungere anzi a quell’estrema, dolorosa e quasi ossessiva passione, che i filosofi hanno chiamato la “desperatio veri,” la bramosia sempre inappagata di conoscere il vero. Ma ciò non significa affatto che, almeno come spinta iniziale, questo sentimento non esista anche negli altri animali; io non dubito che si tratti di una questione di quantità, non di qualità.


E’ questo un bellissimo campo per una ricerca che non è stata ancora adeguatamente intrapresa. A me sembra molto probabile che all’origine di ogni desiderio di conoscenza ci sia la necessità, esistente in ogni essere animato, di trovare una spiegazione dell’ambiente fisico in cui si trova: la domanda “che cosa è tutto questo?” è certamente la prima e la più fondamentale che ogni essere si pone venendo al mondo.

L’istintiva pretesa umana di collocarsi in una posizione speciale per quanto riguarda l’esercizio delle capacità conoscitive ha certamente dei vantaggi pratici, ma ha anche il risulato di indurci a credere che, a differenza degli animali, noi siamo in grado di arrivare prima o poi alla rivelazione del “mysterium supremum”, il significato di tutto quello che ci circonda; ci mette ossia sulla strada del non capire assolutamente niente, mentre altrimenti alcune cose fondamentali riusciremmo a capirle. La nostra conoscenza vera è tutta lì – “what you see is what you get” – ma noi facciamo di tutto per non vederlo.

Sempre più fantomatica la pace in Palestina

(8 novembre) Per celebrare quattro giorni fa il quindicesimo anniversario della morte del premier israeliano Yitzhak Rabin, l’ex presidente Clinton ha pubblicato un vasto e commosso articolo in cui, dopo aver commemorato la figura del solo personaggio di governo israeliano che si sia mai veramente battuto a fondo per la pace con i palestinesi, ucciso a sangue freddo da un terrorista della destra israeliana, afferma che esistono oggi indistintamente tutti i requisiti necessari per realizzare il sogno di Rabin, cioè la pace, e li enumera minuziosamente, uno ad uno. Al termine di tale enumerazione Clinton non dice tuttavia che questa pace tanto ovviamente realizzabile ha un difetto: non c’è.

Inoltre, lo stesso Clinton continua dopo la sua totalmente ottimistica diagnosi della situazione a soggiacere ad un misterioso mutismo, perchè non presenta neppure la minima, e sia pure timida, sia pure parziale ipotesi sul perchè di questa assurdità tanto flagrante: una pace che in teoria esiste, ma in pratica no. Nè appare neppure lontanamente prossima ad esserci. Un’ipotesi che per esempio potrebbe saltare agli occhi di Clinton, dato che egli sta celebrando un uomo di pace e nel farlo ricorda che costui venne fatto fuori a revolverate da un estremista della destra israeliana appunto per i suoi sforzi in pro della pace, sarebbe il supporre che la pace sia tuttora resa irraggiungibile dalla destra israeliana. Ma Clinton è tanto circospetto da non azzardarsi, ohibò, a proporre assolutamente nulla.

Ma che ne dicono gli altri, i commentatori americani? Anche lì, neppure un fiato. Peraltro nelle loro corrispondenze da Israele i corrispondenti osservano che, in quanto icona nella narrativa storica di Israele,la figura di Rabin in questi ultimi anni si è progressivamente sbiadita, e che oggi quelli che celebrano l’anniversario della sua morte sono sempre di meno, e che i valori rappresentati da Rabin pesano sempre di meno nella coscienza della collettività. Il corrispondente del Christian Science Monitor da Israele sottolinea per esempio che lo storico partito politico della sinistra ebraica, il laburista, di cui Rabin è stato uno degli ultimi grandi esponenti, è passato dal controllare al tempo di Rabin un terzo del parlamento israeliano, a controllarne il dieci per cento. In realtà la sinistra conta oggi, in Israele, meno che nulla. L’unico altro erede del partito laburista, il presidente dello stato, Shimon Peres, non ha alcuna voce e di lui si è scritto che pur di non perdere l’auto lunga nera dei governanti israeliani sarebbe pronto a prostituire non solo se stesso ma anche la sua vecchia nonna.

Altri commentatori israeliani spiegano che il definitivo predominio della destra e degli avversari della pace sembra assicurato sia da quella sostanziosa parte della popolazione israelita, perlomeno 300.000 persone, che si è già permanentemente installata nei territori abitati dai palestinesi, ai quali essi dovrebbero essere restituito in teoria da qualsiasi accordo di pace; e sia dalla sicurezza di cui gli israeliani sembrano alfine godere in virtù del muro che i governanti della destra hanno eretto a loro protezione al margine del territorio abitato dai palestinesi, nonchè dal gabbione in cui la stessa destra è riuscita ad imprigionare, nella frazione di Gaza, gli elementi attivi della resistenza.

Insomma, l’icona che oggi in realtà riflette i valori del popolo palestinese non è più Rabin, il morto ammazzato, ma è caso mai Ariel Sharon, che stroncato da un colpo apoplettico giace in coma cioè nella più perfetta immobilità e indifferenza, uno stato quasi simboleggiante quello che prevale oggi in Israele; Sharon il “macellaio”, l’uomo riconosciuto dalle Nazioni Unite colpevole di genocidio per lo sterminio di uomini donne e bambini nei campi di concentramento palestinesi di Sabra e Shatila; l’uomo, infine, a cui è stata dovuta in parte l’ideazione e in pratica la realizzazione della strategia della muraglia e della gabbia, con le quali il popolo arabo della Palestina è stato permanentemente ridotto in un impotente stato di asservimento.

Che dire, poi, dello stato di paralisi quasi equivalente in cui è caduta anche l’amministrazione del presidente Obama, cioè la nazione senza il cui appoggio e aiuto Israele difficilmente potrebbe continuare a realizzare la sua politica di apartheid e di illegalità internazionale? Dire che il povero Obama, che aveva presentato al mondo iniziative di pace in Palestina tanto coraggiose, è bloccato dalle stesse forze misteriose che hanno costretto al mutismo nel suo articolo il suo predecessore democratico, Clinton, è un altro di quei tabù della vita politica americana - il cosiddetto fenomeno dell’elefante nel salotto - la cui presenza da nessuno vuole essere riconosciuta.

E’ lecito fare invece l’ipotesi che non solo l’ importante “lobby” del fondamentalismo ebraico americano, una organizzazione di cui è stata ad abbondanza dimostrata la forza politica, ma lo stesso Congresso americano, alla cui approvazione ogni realizzazione di Obama è subordinata, siano tra le forze che azzerano qualunque conato di pace dell’attuale presidente americano. Clinton nel suo articolo non ha neppure menzionato questo singolare colore ebraico del Congresso americano, un carattere tanto più evidente, in quanto le elezioni per il rinnovo di buona parte del Congresso erano avvenute solo due giorni prima del suo articolo, e i loro risultati avevano ancor più marcato la detta colorazione.

In America, infatti, i risultati delle “elezioni di medio termine” sono stati analizzati nella maniera più approfondita e capillare, cosicchè si è appreso quanti, tra i nuovi membri del Congresso e tra i nuovi Governatori degli Stati sono di destra e quanti di sinistra, quanti i neri e quanti i bianchi, quanti gli uomini e quante le donne, quanti gli omo- e quanti gli eterosessuali, quanti gli avvocati e quanti i businessmen e via dicendo. Ma quanti siano gli ebrei o quanti i pro-ebrei le cui vittoriose campagne elettorali erano state finanziate dalla “lobby” israelo-americana legata alla destra di Israele, nessuno ha trovato necessario, o fattibile, di andarlo a scoprire e di dirlo.

La crescente forza israeliana nel nuovo Congresso americano, invece, viene stranamente discussa in Israele, dove in genere si ha più coraggio di parlare apertamente delle cose di quanto se ne abbia negli Stati Uniti. Essa è stata per esempio apertamente ed entusiasticamente proclamata da un deputato dell’ala estrema del partito di destra Likud, (a cui appartiene il premier Netanyahu), Danny Danon, il quale ha detto: “Un enorme afflusso di nuovi membri della Camera e del Senato americano a Washington [determinato da queste elezioni], include dozzine di stretti amici Israele i quali porranno freno alle sempre dubbie, e talora pericolose, iniziative politiche enunciate da Obama nei primi due anni della sua presidenza.”

Le "elezioni di medio termine"

(3 novembre) Uno come me convinto che tutti i vasti guai della situazione interna americana derivino non dalla politica interna, ma dalla politica estera, non ha trovato motivi d’interesse nelle cosiddette “elezioni di medio termine” americane, perchè di politica estera in tali elezioni non se ne è parlato affatto. Questo è uno straordinario fenomeno, direi un fenomeno senza precedenti, e il più importante aspetto di tali elezioni, anche se nessuno se ne è accorto.

Eppure, sono le guerre, cioè la politica estera, che hanno condotto l’America nel casino in cui si trova. Però nessuno ne ha parlato nei grandi dibattiti a destra e a sinistra e nemmeno tra gli uomini e le donne “nuove” portati alla ribalta dalla grande ventata di qualunquismo, il "tea party", che a detta di tutti sarebbe stata la grande novità. Invece la vera grande novità è stato il mutismo di cui sopra. Ma che cosa è successo?

Ciò che è successo è abbastanza chiaro. Le cause del disinteresse per la rovinosa politica estera americana – quella che Obama ha cercato finora sinceramente di correggere, ma senza risultati – sono essenzialmente due. Non so quale delle due sia la maggiore o se esse abbiano operato di conserva. Comunque sono queste: da una parte, il fatto che l’America è divisa oggi in due Americhe, una grande, che delle due guerre in corso – effetto, causa e sostanza della politica estera del Paese – si infischia in maniera totale, perchè tanto non sono i suoi figli che le combattono, sono i figli e le famiglie dei militari volontari che fanno parte di questa separata, piccola America, che si può senza conseguenze, almeno finora, ignorare. Dunque inutile parlarne o discuterne.

L’altra ragione è nell vitale interesse della grande maggioranza del mondo politico, che è sotto il meticoloso e capillare controllo delle grandi “lobby” israelo-americane di cui la più grande, l’AIPAC, segue e o incoraggia o finanzia o silura uno ad uno la quasi totalità dei membri del Congresso, di tenere del tutto segreti gli argomenti chiave della politica estera. Perchè? Ma perchè se se ne parlasse, si scoprirebbero gli altarini del perchè l’America abbia dovuto sostenere finora gli interessi del governo estremista d’Israele anzichè gli interessi propri, gettandosi in Medio Oriente nella situazione catastrofica in cui si trova da quasi dieci anni senza una via d’uscita; e magari il grande pubblico, allora, incomincerebbe a protestare. Dunque non parlarne, non discuterne, nè tra i competitori politici, nè sui giornali, nè sulla televisione o sulla radio o altrove con l’eccezione delle parti dell’internet ancora troppo sofisticate per la massa; e non perchè il farlo sarebbe inutile, ma perchè sarebbe politicamente suicida.

Chi scrive, d’altra parta, ha preferito tenersi totalmente fuori da queste sinistre “elezioni”. Anche perchè, al loro termine, le cose sono rimaste sostanzialmente come prima, anzi ancora un po’ peggiorate per la freddezza dimostrata dal pubblico verso l’unica entità che aveva promesso un cambiamento, Barack Obama. Dunque non è strano che in questa rubrica delle "elezioni di medio termine" non si sia quasi parlato.

58 spettri per Berlusconi e il papa

(3 novembre) I fantasmi dei 58 fedeli cattolici – uomini, donne e bambini – fatti in brani due giorni fa da una bomba nella chiesa di Nostra Signora della Redenzione al centro di Bagdad hanno da ringraziare in modo speciale un gruppetto di esseri viventi tra i quali spiccano, per macabra ironia, due personaggi del Paese almeno nominalmente più cattolico del mondo, il Papa e il primo ministro Berlusconi.

Il primo, definito la settimana scorsa ”irrilevante” da uno dei più anziani, acuti e famosi commentatori cattolici americani, Garry Wills, continua ad assistere melenso e impotente alla tragedia che sta devastando il suo mondo, che è poi anche il nostro, con effetti ancora più dirompenti di quelli creati dalla pedofilia clericale. Il secondo che, quando ancora era possibile costringere il demenziale presidente americano Bush il Giovane a recedere dalla sua politica di criminale aggressione contro l’Iran, gli si è invece servilmente affiancato nel precipitare tutta la civiltà occidentale nel presente vortice infernale; nè accenna minimamente a ricredersi.

Si deve, in Italia, ad uomini come Benedetto XVI e Silvio Berlusconi, se la ‘Jihad’ o diciamo pure la vendetta islamica sta cancellando a tutta velocità non solo in Iraq ma in tutto il medio oriente da Gerusalemme al Libano e dalla Somalia al Pakistan, la presenza delle comunità cristiane. In una sola generazione i due personaggi hanno fatto per la gloria di Maometto molto di più di quanto il Grande Saracino e tutti i suoi predecessori e successori fossero riusciti a fare in tutto Medio Evo.

Nel solo Iraq, almeno mezzo milione di cattolici, per lo più di rito siriano, sul milione circa che erano prima del 2003 sono stati costretti a fuggire all’estero, e quelli che rimangono disperano per il futuro. “Nessuno ha una qualsiasi soluzione per noi,” ha detto disperato Rudi Khalid, un credente di sedici anni sfuggito al massacro dell’altro ieri. “Del nostro destino nessuno vuole parlare.” In Libano, da una posizione di assoluta preminenza i cattolici sono caduti in una posizione di tremante inferiorità. Non parliamo di Gerusalemme e di quello che adesso i fondamentalisti vogliono sia chiamato ufficialmente lo “Stato Ebraico,” dove i cristiani, una presenza dominante attraverso i secoli e fino a ieri, perlomeno nella versione greco-ortodossa, non rappresentano più una forza politica di un qualunque peso.

Berlusconi a cui, un tempo, si erano affidate in Italia le fievoli speranze del centro liberale italiano, nonostante qualche iniziale successo è oggi sull’orlo di una estromissione ignominiosa per le puzze che lo investono dalle strade di Napoli, ma nessuna macchia escrementizia lo coprirà più incancellabilmente di quella provocata dalla politica estera peconoresca e idiota da lui incominciata nel 2003 con la partecipazione italiana all’occupazione dell’Iraq.

Francia e Germania si erano opposte alla criminale iniziativa di Bush e dei suoi consiglieri israelo-americani “neo-con”, comprendendo bene come il disastroso attentato ai grattacieli di New York, che ne era all’origine, fosse stato anche una reazione alla vile complicità dei governi americani nella politica d’Israele, di sterminio e asservimento del popolo palestinese. Se l’Italia, invece di fare causa comune con Bush si fosse allineata con Francia e Germania, forse Washington avrebbe fatto marcia indietro e non saremmo tutti scivolati in un abisso. Il nostro governo, per quanto di forza e livello internazionalmente quasi insignificanti, aveva un' occasione, forse, di salvare la nostra civiltà, e l’ha perduta. (In un’altra nota, “I barboncini di Bush” del 12 settembre – vedi archivio – ho ricordato i miei disperati quanto inutili sforzi fatti a suo tempo per ottenere un’evoluzione diversa dei fatti.)

Intanto il governo italiano continua ad immischiarsi nelle inani guerre che ci consumano da quasi dieci anni, e a perdere ogni occasione per dimostrare una propria indipendenza e cercare di rimettersi in una posizione di obbiettività rispetto all’orribile scontro con l’Islam.

Ogni anno il nostro ministero degli esteri si premura di significare al governo estremista di Israele l’ossequio dell’Italia, dando istruzione alle rappresentanze consolari italiane perchè celebrino il rito della pubblica lettura dei nomi delle vittime dell’Olocausto, senza alcun accenno, naturalmente, alle altre vittime, quelle fatte da Israele in flagrante violazione della legge internazionale nei territori che occupa in Palestina. Ogni anno alla delegazione diplomatica italiana a New York il mellifluo ministro degli esteri italiano viene ad incontrarsi con gli esponenti delle potenti associazioni israelo-americane che sostengono il governo d’Israele qualunque cosa esso faccia, ignorando che ne esistono anche altre, degli ebrei americani che lottano per un accordo con il mondo islamico e cercano di riportare l’America e il mondo occidentale verso una politica di giustizia e di pacifica coesistenza.

Non è, quella italiana, politica estera, ma solo vigliaccheria; vediamo se l'abbia capito almeno l'opposizione da cui dovrebbe uscire l'eventuale nuovo governo italiano.

Viale del tramonto

(27 ottobre) Il cinema – soprattutto quello di Hollywood – influisce sul costume, o è il costume che influisce sul cinema? O il processo è circolare, nel senso che i due si influenzano a vicenda?

In attesa di una risposta, mi sono accorto che sia il cinema che il costume procedono veramente a ondate, anche se spesso uno nemmeno se ne accorge. Per esempio, agli esordi e poi fino ai tardi anni Trenta trionfavano film imperniati sui personaggi “fini,” “sensibili”, sia femminili (per fare degli esempi, Lillian Gish in tempi antichi, più recentemente Ingrid Bergman) che maschili (tipo prima Richard Barthelmess, poi Paul Henreid o il grande Leslie Howard, che tutti credevano tipicamente inglese, invece era polacco); e sui loro personali calvari. Spesso, gli stessi titoli rendevano in partenza l’idea (“Fiori infranti” ).

Adesso, i fiori sono sempre infranti nella realtà, ma nel cinema e anche nella narrativa e nel costume, chi se ne interessa più? Chi parla più degli uomini e delle donne “sensibili”? Casomai, interessano i caratteri duri. Perfino certe parole stanno uscendo dall’uso. Come avviene anche in Italia: “è molto fine,” si diceva una volta per dire una persona raffinata. Adesso “fine” non si dice più, o solo per ironia, o solo al livello di portierato.

Dopo quella mania ne arrivò, negli ultimi anni Trenta e primi anni Quaranta, un’altra di forza anche molto maggiore, uno tsunami più che semplice ondata: quella delle afflizioni psichiatriche. In tutte le versioni, dalla “Psycho” o psicosi vera e propria (Hitchcock ci fece, sul tema, non meno di quattro film) alla personalità multipla, alla supercriminalità demenziale, alla paranoia, all’amnesia totale con ricadute romantiche, e poi alla psicanalisi in tutte le sue varianti, Freud, Jung, Adler.

Le persone bene, soprattutto in America, avevano, una su due, lo psicanalista, i bambini cominciavano a scuola con lo psichiatra. Poi, tutto d’un tratto, la mania è passata totalmente e non è mai più, o perlomeno non ancora, tornata. Giorni fa ho riguardato una pellicola del 1947 intitolata “Possessed” (“L’ossessa” o “Gli Ossessi,” il titolo di Dostoievski). Si era a quell’epoca all’apice dello tsunami. Ma il film era un prodigioso pastrocchio, nonostante il meraviglioso cast con Joan Crawford, Raymond Massey e Van Heflin, ed è rapidamente uscito dalla comune. Magari può essere stato proprio quello che ha indotto la gente a intravedere l’assurdità dell’intera voga, e a farla, nel giro di una ventina d’anni, scomparire.

E adesso? In mezzo a quale ondata siamo? Io non vedo o sento altro che film su puerili storie fantastiche con calci in bocca, o sulle parti basse, e grandi scopate; un appetito per la favola scema, la violenza e il sesso che mi pare più che altro uno sforzo per staccarsi dal presente, e che si inquadra benissimo nel declino cerebrale che è a sua volta un aspetto della deriva verso cui sta purtroppo andando questo grande Paese, e dietro a lui, ovviamente, Paesi già in partenza più rimbambiti e più arretrati come l’Italia.

Di questo lagrimevole moto discendente fanno parte tante altre cose, ma la più grave, con cui concludo, è la scomparsa della musica, perchè non voglio intendere questa parola i rumori e singhiozzi con accompagnamento di parolacce, che si sentono normalmente alla radio o televisione o nei cosiddetti "concerts".

Io parlo della musica seria, il cui uditorio, in tutta l’America, è diminuito per lo meno dell’80 per cento rispetto a tempi che pure erano finanziariamente molto più magri, come i primi decenni del dopoguerra. La vendita dei dischi di musica classica è precipitata a poco più di zero. A Manhattan c’erano fino a pochi anni fa due stazioni radio che trasmettevano musica classica 24 ore su 24. Una decina d’anni fa, le stazioni sono diventate una. Poi questa si è salvata dalla bancarotta vendendosi a terzi, i quali tuttavia l’hanno ridotta al lumicino sia come orario che come personale e raggio di diffusione. Adesso chiede disperatamente soccorso al pubblico per non dover chiudere anche lei.
7:52 AM

Al di qua (1)

(23 ottobre) Qualche giorno fa Woody Allen ha compresso con mirabile economia l’intera sua visione del mondo in queste parole: “What you see is what you get,” cioè quello che vedete è tutto quello che c’è. Poi ha detto che quanti credono che ci sia qualcosa d’altro, come per esempio ciò che viene offerto dalle religioni, sono fortunati perchè in genere trovano in ciò qualche conforto; ma lui non è uno di questi.

Io gli ho chiesto di elaborare un po’ questi concetti ma lui non ha voluto farlo. Allora cercherò di farlo io, per la semplice ragione che la sua proposizione principale mi trova consenziente al cento per cento. Non sono invece precisamente d’accordo sull’idea che le religioni rappresentino necessariamente un conforto, e partirò da questa divergenza per aggiungere qualche parola.

Innanzitutto, c’è una quantità tale di cose da vedere intorno a noi, che non capisco perchè si debba andarne a cercare dell’altra. Ma se ne vogliamo ancora, basta alzare gli occhi al cielo e pensare agli elementi più rudimentali dell’astronomia per essere, nel contempo, sopraffatti da un senso di meraviglia e stupore. Poi c’è moltissima roba che non vediamo, ma sappiamo che esiste; e anche questa ci offre un vasto campo su cui esercitare profittevolmente il pensiero.

E’ ben vero che anche delle cose che vediamo, o che supponiamo ci siano, non comprendiamo in fondo assolutamente nulla. Questa, anzi, è l’unica ragione per cui abbiamo il diritto di accettare le fantasie religiose: le une in certo senso valgono le altre (mi pare che il primo a sostenere questa equivalenza fu Sant’Agostino).

Purtroppo, però, le idee consolatorie derivanti dalle religioni sono in genere molto insipide. Di tutte le religioni che io conosco, forse la consolazione più concreta è quella maschilista proposta dalla religione mussulmana, le giovani urì che ci diletteranno in paradiso; ed è tutto dire. Il paradiso offerto dalla religione cristiana è di una vacuità e di una noia senza pari. Non un solo verso di Dante quando descrive l’empireo è passato alla storia. Le religioni orientali ci offrono di svincolarci finalmente dall’esistenza dopo un vasto numero di reincarnazioni; ma il conforto successivo non è chiaro. La religione ebraica, perlomeno, ha il buon senso di non assicurare nessun paradiso.

D’altra parte, provate voi stessi ad evocare delle consolazioni ultraterrene migliori, e troverete difficile anche immaginarle; a meno che non non siano quelle stesse che sperimentiamo nella vita, ciò che rappresenterebbe una contraddizione in termini. Ma se le trovate, fatemele conoscere.

Io sospetto però che la religione abbia anche un lato intrinsecamente negativo. A forza di ricorrere ad essa, a forza cioè di dirottare verso di essa una parte dei nostri pensieri, diminuiamo la quantità di attenzione che invece dovremmo rivolgere alle cose che ci circondano, sia che crediamo di capirle, sia che no; e penso che se in luogo delle pratiche religiose si organizzassero sforzi deliberati, individuali o collettivi, di apprezzamento della vita, questo finirebbe coll’avere un effetto consolatorio non minore delle astrazioni mistiche.

Una conseguenza dell’idea “what you see is what you get” è, d’altra parte, l’accento che essa mette sul fatto che sia noi, che tutto quello che ci circonda, siamo parte della natura. Questo a sua volta può condurci a qualche ipotesi interessante sulla nostra funzione nel mondo, e sulla differenza che esiste tra noi viventi e ciò che non vive. Se mi sentirò di farlo ne parlerò un’altra volta.

Bagatelle per un massacro

I commentatori e i conduttori di poll impegnati nel prologo alle elezioni americane di medio termine hanno fatto una grandissima scoperta: c’è la guerra. Anzi una guerra doppia, tripla, che va avanti da nove anni, di cui non si vede minimamente la fine, che ha fatto finora quasi cinquemila morti più trentamila mutilati e feriti solo da parte americana, forse un milione e più di morti e feriti altrove, più lo sperpero di qualche trilione di dollari, più il collasso dell’economia occidentale: ma pochi o nessuno sembrano ricordarsene tra quelli che si preparano a votare. Pochissimi, poi, la pongono come una ragione eminente di preoccupazione. Chissà come mai?

Osserva, per fare un esempio Tom Brokaw, corrispondente speciale del giornale televisivo della NBC, che l’apparizione nella contesa elettorale del populista Partito del Tè è oggetto di grandissime discussioni e commenti; invece di questo stillicidio di morte e distruzione non si sente quasi parlare; nè tra gli elettori, nè tra i non elettori, nè tra gli occupati, nè tra i disoccupati, nè tra i risparmiatori, nè tra i consumatori, insomma da quasi nessuna parte. “E’ possibile che nessuno si accorga che dal panorama manca qualcosa? … E perchè mai queste guerre, e le loro conseguenze umane ed economiche, non sono in primo piano, al centro, di questa campagna elettorale?” Si chiede Brokaw.
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Qualcuno, di tanto in tanto, incluso chi scrive e incluso uno degli stessi protagonisti principali come il presidente Obama, ha individuato e occasionalmente indicato durante tutto questo tempo la causa più chiara di questo letale fenomeno collettivo. E’ il fatto che nella nazione più profondamente responsabile e più abituata e attrezzata a fare grande rumore sulle sue vicende interne, cioè da parte americana, la gente se ne infischia, e se ne infischia, perchè solamente un uno per cento – i soldati dell’esercito volonario e le loro famiglie – è direttamente coinvolto. Per di più, questo un per cento è pagato; dunque, fatti suoi. I morti? Sono, nell’immensa maggioranza, figli altrui. E quando si sono andati ad arruolare sapevano bene che erano pagati o per uccidere o per essere uccisi.

Però c’è anche un’altra ragione di silenzio che viene menzionata ancora meno, neppure dal pur coraggioso presidente Obama, neppure dai giornali, perlomeno quelli d’America e delle altre nazioni occidentali. Essa è connessa alla causa originaria di quest'epopea di strage, ed è una causa, che, pure, fu messa in colossale evidenza dalla più mostruosa catastrofe mai subìta da una nazione “avanzata” come gli Stati Uniti. Volete un indizio per risolvere questo permanente indovinello? Cercò all’epoca della catastrofe di provvederlo al pubblico americano un signore plurimiliardario che proprio in questi giorni è riapparso sulla scena in seguito a certi suoi investimenti sul mercato azionario di New York. Si tratta del principe Walid bin Tal, della famiglia regnante in Arabia Saudita, una figura molto criticata nel suo Paese per via del suo accentuato filo-americanismo, e molto criticata in America per il suo accentuato filo-islamismo (questa doppia qualifica sembrerebbe di per sè indicativa di una qualche imparzialità).

Il principe Walid, quando crollarono i due grattacieli del World Trade Center, spedì a Rudolph Giuliani, sindaco della città in cui vive il più vasto aggregato ebraico del mondo, superiore anche a quello di qualsiasi città israeliana, così vasto e predominante che un giornale svedese la ribattezzò una volta Jew York, un assegno di 10 milioni di dollari da impiegare per l’assistenza alle famiglie delle migliaia di vittime. Insieme c’era un biglietto che diceva: “Gli Stati Uniti dovrebbero però anche riesaminare le loro direttive politiche nel Medio Oriente ed assumere una posizione più equilibrata nei confronti della causa palestinese.” Il sindaco Giuliani nel ricevere questa comunicazione si dichiarò supremamente oltraggiato da questa intrusione sia pure verbale nella politica estera americana, e per seppellire il tutto sotto il più sdegnato oblìo restituì anche al mittente il regalo di dieci milioni. Serve a voi questo episodio di nove anni fa come indizio alla soluzione del summenzionato enigma?

Uno sguardo circospetto al Medio Oriente

(16 ottobre) In un tentativo di fare il punto della situazione mediorientale, chi scrive è colpito dall’aggravamento di alcuni motivi di ingovernabilità da tempo avvertibili nella società israeliana, aggravamento che arriva oggi ad infirmare persino importanti manifestazioni esterne di quello Stato. Un esempio è il discorso, aggressivo e sconnnesso, presentato alla riapertura annua dell’Assemblea generale dell’ONU dal ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman per indicare nelle grandi linee, com’è di prammatica, gli indirizzi politici della sua nazione, e che è stato ripudiato ufficialmente, come privo di qualsiasi rappresentatività dei programmi politici nazionali israeliani, a poche ore di distanza dal premier dello stesso governo, Benjamin Netanyahu. Un simile caso di politica schizoide non si era mai registrato all’ONU.

Netanyahu, che era contemporaneamente impegnato in uno dei momenti più critici dell’azione diplomatica che Israele non ha mai cessato di svolgere per cementare le sue istanze di sopravvivenza, ha peraltro esibito lui stesso gli effetti di una disfunzione congenita del suo governo.

Si trattava della ennesima tornata dell’intermittente, ormai quasi ventennale “processo di pace” con rappresentanti più o meno autorizzati della popolazione araba, per una sistemazione bi-statale del territorio palestinese, una tornata assecondata però questa volta con tutto il suo possibile potenziale politico anche dall’amministrazione americana del presidente Obama. La soluzione bi-statale è stata solo recentemente accettata in principio da Netanyahu e dal suo governo di coalizione, del quale tuttavia fanno parte le fazioni ultra-religiose e il movimento russo-ebraico di Lieberman.

Semplicemente per poter continuare il dialogo, Netanyahu ha fatto al suo interlocutore
la strana richiesta di riconoscere formalmente e in via pregiudiziale allo stato d’Israele il carattere di “stato ebraico”. Richiesta difficilmente comprensibile, ma non a chi conosca il significato e il peso che ad essa viene annessa dalla componente estremistica su cui si regge il governo Netanyahu.

Per questa, il riconoscimento ufficiale di un carattere teocratico ed etnico del governo israeliano dovrebbe essere, sui tempi medi, la leva con cui forzare la popolazione araba della Palestina, inclusa la minoranza che già fa parte della popolazione d’Israele (nella misura del 20 per cento), ad accettare uno status di second’ordine che per il momento non viene specificato. Esso è tuttavia facilmente intuibile per via di comparazione con quello assegnato alla popolazione di Gaza.

Si tratta di uno del capisaldi del movimento per uno stato autoritario d’ispirazione post-sovietica ‘Yisraeli Beiteinu’ (‘Israele è casa nostra’) di Lieberman, che, in alleanza ufficiale con gruppi minoritari ultra-religiosi e “de facto” con il gruppo anarcoide e potenzialmente insurrezionale dei 300.000 coloni occupanti illegalmente la zona transgiordana della Palestina, costituisce una delle colonne portanti del governo Netanyahu.

Successivamente l’ambasciatore d’Israele a Washington ha cercato di chiarire, in un articolo di giornale, la natura di questa richiesta al popolo palestinese, giustificandola come una carota che la componente neo-moderata del suo governo non potrebbe fare a meno di porgere alla componente estremistica di Lieberman per poter avanzare nel negoziato. L’idea che una simile proposta di auto-castrazione, che richiama in certo modo alla mente la disperata offerta di “bantustan” pseudo-indipendenti fatta alla popolazione negra nell’ultima fase del regime di apartheid in Sud Africa, possa essere accettata dai palestinesi, e sia pure dal loro rappresentante più mite e disposto alla collaborazione, il presidente "de facto” Abu Mazen, sembra avere le stesse possibilità di successo che ebbe a suo tempo quella messa sul tavolo dai coloni bianchi sudafricani.

Se anche questa tornata negoziale è destinata a fallire, la situazione che sembra delinearsi per la Palestina è di due aggregati umani ugualmente dissociati nel loro interno, in una strana simmetria il cui significato antropologico e politico per il momento sfugge.

Da una parte c'è un popolo ebraico sostanzialmente diviso in due tronconi, uno moderato e presumibilmente animato da intenzioni di convivenza pacifica con gli arabi, l’altro, predominante, deciso ad imporre a tutti i costi una signoria teocratica sull’intero territorio biblico quale precedeva la seconda distruzione del Tempio. Di fronte a questi due tronconi c’è un popolo palestinese ugualmente diviso in due: il gruppo minoritario che finora ha favorito una trattativa con gli ebrei, illegalmente rappresentato sulla sponda del Giordano da un uomo che porta abusivamente il titolo di presidente; l’altro, di base a Gaza, legittimamente rappresentato e controllato da un movimento di resistenza massimalista che finora non ha mai voluto rinunciare, almeno in linea di principio, all’obbiettivo di espellere totalmente gli ebrei.

Attorno a queste società tronche volteggia in questo momento l’individuo che si è collocato alla testa del movimento di Jihad in difesa dell’Islam, nel quadro della crociata anti-islamica sferrata dall’occidente le cui origini risalgono nella maniera più chiara al conflitto palestinese. E' il presidente dell”Iran Ahmadinegiad. E’ anche l’uomo che ha inserito nell’equazione l'incognita atomica, di conserva con Israele e con il Pakistan. In nome proprio, e in esplicita rappresentanza della nazione araba, la Siria, con cui il suo Paese ha un accordo di azione, Ahmadinegiad sta visitando ufficialmente in Libano la zona calda del confine con Israele. Nello stesso Libano, il movimento Hezbollah, finanziato e armato dall’Iran e Siria, si sta alacremente riorganizzando e riarmando dopo il confronto con Israele del 2006. Esso dispone attualmente, secondo informazioni americane, di 40.000 missili in luogo dei 14.000 posseduti quattro anni fa.

E’ molto difficile immaginare che cosa presagisca questa situazione, all’interno dell’immenso arco di instabilità che va dalla Somalia al Pakistan e in vista delle guerre che già impegnano l’America e l’occidente in Afganistan, in Iraq e in Pakistan. Ma perlomeno a chi scrive, essa non ispira pensieri particolarmente lieti.

Il New York Times e la crociata anti-Islam

(10 ottobre) Un paio di giorni fa un noto columnist newyorkese, Bob Herbert, si è aggiunto a un crescente coro di gente che si sta accorgendo del multiforme declino della società americana, e, prendendo spunto dal fatto che le autorità statali hanno rinunciato a costruire un tunnel ferroviario al di sotto del fiume Hudson, che pure è urgentemente necessario, ha scritto: “Siamo bravi a scendere in guerra nell’Iraq e nell’Afganistan e a scagliare minacce contro l’Iran … ma non riusciamo più a fare nemmeno un’opera d’ingegneria che un tempo sarebbe stata quasi di ordinaria amministrazione… L’America, che ha tante volte stupito il mondo con la lungimiranza e la grandiosità delle sue imprese … sta perdendo le sue capacità e sempre più scivolando in basso… E non è soltanto questo… E’ che l’America sta perdendo l’anima … C’è stato un punto, ci sono state ragioni, ci sono stati momenti, in cui questo sconvolgimento è incominciato…”

Salvo menzionare le guerre in corso, il giornalista non si azzarda ad additare nessuna di queste ragioni e momenti misteriosi, eppure, per far capire perlomeno di che si tratta, gli basterebbe parlare del giornale sui cui scrive, il potente New York Times, ancor oggi considerato il più efficiente e il più influente quotidiano del mondo.

Di proprietà israelita ma, in passato, sempre molto attento a non far derivare da questo il tono dei suoi resoconti, il giornale, oltre a perdere rapidamente quota come qualità negli ultimi anni, si va sempre più chiaramente schierando dove lo spingono forze di parte legate all’ebraismo più fanatico e fondamentalista, nel tragico conflitto che vede gli Stati Uniti, e dietro ad essi il resto dell’occidente, sempre più impastoiati in una lotta insensata contro il mondo islamico, e ciò a solo vantaggio dell’espansionismo israeliano in Palestina. A volte – come è accaduto oggi – al punto da rendersi occasionalmente, e, sembrerebbe, quasi senza saperlo, portabandiera di queste forze nelle loro manifestazioni più repugnanti.

Oggi è la volta di un articolo su due intere pagine – una lunghezza assolutamente senza precedenti, per quanto io ne sappia, per questo giornale, da almeno mezzo secolo a questa parte – corredato da una ventina di fotografie a colori e segnalato vistosamente in prima pagina, in cui si fa la storia di una nuova esponente del movimento razzista e anti-Obama del cosiddetto “tea party” (vedi il mio articolo “Protofascisti all'assalto in America,” del 15.09.10). Si tratta di una repellente donnaccola, almeno per il mio gusto, di nome Pamela Geller, editrice di un blog sull’internet chiamato “Atlas Shrugs” (dal titolo di un famoso libro di Ayn Rand, la filosofa anarchica di destra degli anni Trenta), blog che sta passando il milione di lettori.

La specialità della Geller, nel quadro generale delle attività anti-Obama del “tea party” è un attacco sfrenato contro ogni e qualsiasi aspetto del mondo arabo. La Geller si definisce essa stessa “razzista islamofoba.” Proveniente da uno degli ambienti chic del mondo ebraico newyorkese, la donna propone una guerra ad oltranza contro l’intero mondo mussulmano e in particolare del movimento palestinese a cui dovrebbe essere negato perfino il possesso dei suoi secolari luoghi santi entro i confini di Gerusalemme: la stessa moschea di Al Aqsa, uno dei più venerati monumenti dell’islamismo, sul colle dove sorgeva un tempo il Tempio degli ebrei, dovrebbe essere rasa al suolo.

Non parliamo del trattamento che la Geller vorrebbe riserbare all’imam arabo che a New York vorrebbe costruire una moschea “di conciliazione tra le fedi” in vicinanza del luogo dove crollarono le torri del Trade Word Center, un progetto applaudito dal presidente Obama non meno che dal sindaco di New York Bloomberg, anche se egli stesso israelita; nè dell’obbrobrio espresso da questa arpia nei confronti di qualunque misura approvata finora dall’amministrazione democratica e dal presidente Obama che, secondo lei, sono anzi all’origine del declino che pure lei riconosce in atto negli Stati Uniti. “Un declino – ha detto – non solamente presieduto, ma attivamente promosso dal signor Obama.”

Non parliamo di tutte queste scemenze, dicevo, anche perchè ne parla in assurdo dettaglio il New York Times; con l’effetto, ovviamente, di dare enorme pubblicità ad una sciagurata fomentatrice d’odio nonchè alle sue nauseanti idee, una pubblicità del valore di centinaia di migliaia di dollari, anche se calcolata semplicemente in base alle tariffe del giornale. Se poi si pensa alle elezioni del mese prossimo in cui tutte le forze anti-Obama, anche le più mefitiche, si stanno coalizzando per negare al presidente una maggioranza in Congresso, il valore sale di molto.

Solo tre giorni prima della comparsa dell’articolo era finito a New York il processo contro l’attentatore pakistano-americano Faisal Shahzad, che cinque mesi fa parcheggiò un’auto con inefficienti esplosivi in Times Square. Dopo aver ascoltato la sua sentenza all’ergastolo, e aver chiesto e ottenuto di parlare, il condannato ha pronunciato un breve e sensato discorso sui rapporti arabi con l’occidente e sull’assurda crociata anti-islamica che procede da nove mesi. Il giudice (una donna) lo ha ascoltato con interesse ed equanimità, perfino ringraziandolo alla fine. Il New York Times, nel suo resoconto, ha riservato alle dichiarazioni di questo giovanotto che si prepara a passare una vita in galera, cinque righe.

Ancora pena di morte

(6 ottobre) L'articoletto "La pena di morte in Italia" (25.09.10) mi ha procurato molte proteste, alle quali vorrei rispondere brevemente. Eccettuando però quelle di carattere teologico (“la santità della vita”) che appartendo, per definizione, a una logica ultraterrena, non considero suscettibili di discussione terrestre.

Tutte le obbiezioni che mi sono state mosse si basano su uno di due argomenti, o su tutti e due. Il primo è un’asserita scarsa forza dissuasiva e preventiva della pena capitale sull’attività criminosa. E’ una insufficienza che non è stata mai possibile dimostrare; comunque, anche se dimostrata, sarebbe pur sempre meglio una forza insufficiente che nessuna forza. L’argomento non è, d’altra parte, il principale dei due.

L’altro consiste nella gravità unica di una pena che, nei casi in cui è il risultato di un errore giudiziario, è, a differenza di tutte le altre, irreparabile.

È un argomento importante; non è, tuttavia, un argomento contro la pena di morte. E’ un’argomento contro gli errori giudiziari quando conducano alla pena di morte, e perciò esso va svolto, ed effettivamente viene svolto, in questi termini, e non nei termini di un’inaccettabilità pregiudiziale della condanna a morte.

Innanzitutto bisogna scartare come un “non sequitur” l’idea che il numero delle ingiuste condanne a morte sia deducibile dal numero relativamente alto dei casi in cui l’ingiustizia viene scoperta per i condannati in attesa di esecuzione, e che sono i casi generalmente riportati dai giornali. Caso mai questo numero elevato indica il contrario, ossia che le cautele che vengono prese, e che sono straordinariamente abbondanti per lo meno nella procedura americana, per evitare l’errore quando sia stata comminata la pena capitale, funzionano effettivamente.

Lo stesso dicasi per un’altro aspetto caratteristico della sorte dei condannati nei penitenziari americani, sia federali che statali – per inciso, non tutti gli stati della federazione applicano la pena di morte – e cioè il fatto che i “bracci della morte” rigurgitano di detenuti che vi risiedono per tempi incomprensibilmente lunghi. La media è di una decina d’anni prima dell’esecuzione, che spesso diventano quindici o venti.

In Europa questa lunghissima attesa, anch’essa abbondantemente pubblicizzata dalla stampa e dai film, viene spesso giudicata il risultato di una specie di sadismo delle autorità penali americane. Invece si tratta, anche qui, esattamente del contrario, cioè del tempo occorrente per riesaminare tutti i possibili difetti procedurali e vagliare, man mano che vengono presentati, tutti i possibili elementi di fatto a favore di una revisione o commutazione della sentenza. Questo tempo è evidentemente tanto più lungo quanto più numerosi e meticolosi siano questi riesami.

All’atto pratico, il filtro rappresentato da queste procedure cautelative fa’ sì che il numero dei giustiziati vittime di un errore è infimo. Il che non significa che non ve ne siano. Ma il loro numero è diminuito attraverso il tempo, proprio per effetto della meritoria campagna contro l’errore giudizario, da non confondere, come dicevo, con la campagna contro la pena capitale. Ai progressi della medicina legale ha d’altra parte enormemente contribuito negli ultimi anni lo studio del “dna”, e non solamente per quanto riguarda i delitti sessuali.

Certo, il giorno in cui il numero delle vittime dell’errore sarà ridotto a zero è ancora di là da venire e magari non verrà mai. Non è tuttavia una ragione per abolire la pena capitale, così come l’impossibilità di ridurre a zero il numero incomparabilmente più alto degli innocenti travolti e uccisi dagli automobilisti ubriachi non è mai stata una ragione per abolire il traffico stradale.

Un esercito più o meno gaio

(1 ottobre) Da tempo i portabandiera progressisti premono sull’amministrazione di Washington perchè abolisca l’ultima remora ancora esistente sull’attività omosessuale nelle forze armate: la regola del “don’t ask, don’t tell” (“non dite nulla, e nulla vi sarà chiesto”), che proibisce ai gay di dichiararsi apertamente. Attualmente, se lo fanno, possono essere espulsi. Se tacciono possono rimanere, con l’assicurazione, prevista dalla regola, che nessuno gli chiederà da che parte stanno come vita sessuale.

Con due o tre guerre per le mani, assaliti dalle preoccupazioni più varie – suicidi delle reclute, soldati che impazziscono, soldati rimbecilliti dalla droga che commettono oscenità e atrocità senza precedenti, una percentuale di morti e mutilati che invece di diminuire aumenta, insufficienza degli effettivi con rotazioni troppo frequenti tra servizio al fronte e periodi in patria, eccessivo ricorso alla “national guard” o riserva territoriale che tra l’altro lascia troppo scoperto il territorio nazionale per il caso di catastrofi naturali o dolose – il segretario alla difesa Gates, il capo dello stato maggiore Mullen e il comandante supremo Obama non hanno ancora deciso come rispondere ai fautori della tolleranza totale nell'ambiente militare.

Il presidente e i suoi aiutanti esitano non per moralismo, ma per paura che l’ingresso aperto dei gay nelle forze armate dia un altro colpo alla loro efficienza, forse il colpo finale. D’altra parte i pro-gay sono una sezione non indifferente dell’elettorato, e un’amministrazione che già teme forti diserzioni nel voto di novembre per il rinnovo del Congresso non può prendere alla leggiera l’ostilità di un gruppo così importante.

L’elemento militare si trova di fronte a un fenomeno in parte simile a quello che turba la Chiesa cattolica. La spiegazione convenzionale della pederastia ecclesiastica è che il prete ne sviluppa gli appetiti perchè gli è precluso lo sfogo matrimoniale, ma io ritengo questa spiegazione invalida, perchè quegli appetiti si annunciano ben prima dell’età coniugale. Ciò che attrae veramente il seminarista gay è, in primo luogo, un ambiente prevalentemente maschile, con presenza e disponibilità di maschi grandi e piccoli. In secondo luogo è un ambiente conciliante verso i gay, e che più i gay aumentano, più conciliante diventa.

Quella che attrae all’ambiente militare il volontario gay è la prima di queste due caratteristiche. La seconda è meno presente, ma quando l’elemento gay, dall’essere tacitamente tollerato, diventasse ufficialmente accettato e protetto, e anche solo per questa ragione il suo numero cominciasse ad aumentare, i rischi per l’esercito volontario diventerebbero difficili da prevedere. E’ possibile che il pregiudizio nei suoi ranghi sia stato sottovalutato, e allora potrebbe spaccarsi in due. O che, al contrario, il pregiudizio si dissolva totalmente col tempo, e che allora l’aumentato flusso dei gay crei un ambiente non dissimile, per fare degli esempi, da quello dei ballerini o dei parrucchieri per signora. Perfino il suo comportamento di fronte al nemico, allora, diventerebbe un'incognita.

Un "quack" molto misterioso

(30 settembre) – “Quack, grug… uhu!” Attenzione: potrebbero essere le prime parole di un alieno che si siano mai udite sulla Terra.

Questa mattina ero all’inaugurazione del nuovo super-planetario dell’American Museum of Natural History di New York, che può mostrare, in forme dirette o generate dai computer, una buona fetta dell’universo, e c’erano, oltre ai giornalisti, astronomi, astrofisici e altri scienziati importanti.

Quando, prima che si spegnessero le luci, il noto astronomo e portavoce del museo, Neil Tyson-DeGrasse ha fatto una descrizione del nuovo super-planetario al radio-microfono della sala, l’onda elettromagnetica si è interrotta per due secondi dando luogo ai misteriosi suoni riprodotti approssimativamente più sopra. Al ritorno del sonoro l’astronomo ha buttato lì: “Era l’alieno del pianeta scoperto ieri.” Molti si sono messi a ridere, però quello non era stato un rumore, ma, sia pure animalesca, una voce, e la battuta di Tyson-De Grasse totalmente da ridere non era.

Il pianeta “G” della stella Gliese 581, la cui scoperta è stata annunciata ieri (veda, chi vuole, il sito scientifico world-science.net) è il primo che, a detta, degli scienziati, ha caratteristiche tali da ospitare la vita, anche una vita intelligente come la nostra. D’altra parte le onde elettromagnetiche viaggiano, come si sa, per tutto l’universo.

L’unico problema è che la stella e i suoi pianeti si trovano a una ventina d’anni luce dalla terra. Quindi è difficile che l’alieno, o l’aliena, si rivolgesse proprio a quella riunione di studiosi, che dovrebbero aver prevista vent’anni fa. Difficile ma non impossibile, se la loro avanzatissima civiltà avesse già trovato il modo di viaggiare a velocità superiore a quella della luce…

In caduta libera

(28 settembre) Le forze oscure (così le ha chiamate qualche tempo fa l’ex presidente Carter) che stanno conducendo l’America dall’essere, come si diceva qui, “the city on the hill,” una città di speranza e di luce, all’essere, lasciatemi dire, una città della merda premono implacabilmente. Adesso è la volta dei soldati mercenari drogati che in Afganistan ammazzano per gusto e fanno collezione di teste, di dita, di altri brani di civili morti, nonchè di fotografie necrofiliache ancora più orrende delle foto di disgraziati trascinati nudi sul pavimento delle prigioni dell’Iraq da soldatesse impazzite. Sì, è vero, perlomeno questi dementi sono apparsi e appaiono davanti alle corti di giustizia americane. Ma davanti a quali corti appaiono i responsabili di queste guerre che non accennano a finire, di queste guerre condotte a distanza con le armi vigliacche degli apparecchi senza pilota, che per un vero nemico trucidano cinquanta innocenti?

Altre novità: la guerra portata da questi apparecchi, adesso, in Pakistan – il terzo paese arabo in cui l’America sta sprofondando, e dietro al quale aspettano in fila altri paesi musulmani come lo Yemen, la Somalia – è che il numero delle incursioni dirette nella regione del Waziristan settentrionale da piloti invulnerabili seduti in tutta pace negli uffici della CIA vicino a Washington, stanno aumentando ogni giorno. Altre stragi vengono perpetrate da elicotteri che fanno base in Afganistan. Forse è vero che il generale Petraeus riuscirà tra un anno a ritirare le truppe americane dall’Afganistan, al prezzo, probabilmente, di restituire al Taliban il controllo del paese. Ma mi pare difficile che potranno uscire in buone condizioni dal Pakistan, dove la vera guerra è già avviata.

In Iraq, l’organizzazione associata con il capo del terrorismo arabo Bin Laden, “Al Qaeda in Mesopotamia,” che era stata data per scomparsa e vinta, ha improvvisamente rialzato la testa ora che gli Americani hanno fatto le prime mosse per abbandonare il paese, e ha cominciato a fare stragi in diverse province. “Come abbia potuto operare questo capovolgimento è un mistero,” scrive l’inviato del New York Times. I missili dei ribelli, per quanto non molto precisi, già cadono in quantità sulla "zona verde" fortificata di Bagdad che ospita il governo e i comandi americani, e potrebbe non essere non lontano il giorno in cui questi dovranno evacuare il Paese aggrappati agli elicotteri, come avvenne in Vietnam.

Di fronte a questo sfascio generale l’esile Obama appare impotente. Il negoziato che egli si è impegnato, con coraggio date le ricadute contro di lui sul piano interno, a spingere avanti per spegnere il conflitto che brucia da cinquant’anni tra gli israeliani e i palestinesi, e che è all’origine di tutto, è in situazione di stallo. “Noi non comprendiamo come l’America possa continuare a dirsi contro l’allargamento dell’occupazione del territorio arabo da parte dei coloni ebrei, ma poi non faccia nulla per mettervi fine; non comprendiamo perchè l’America sia incapace di fermarli", ha detto timidamente il negoziatore palestinese. L’ex presidente Carter, l’unico che si sia dedicato allo studio delle “forze oscure,” potrebbe dargli una spiegazione.

Israele ha già attaccato l'Iran?

(26 settembre) Le strutture cibernetiche degli impianti atomici iraniani sono state invase da un virus a cui gli organi dello spionaggio americano danno il nome di Stuxnet. Se è Israele che attacca, questo spiegherebbe lo strano silenzio mantenuto da qualche tempo in qua dalle autorità israeliane rispetto al cosiddetto ‘pericolo esistenziale’ rappresentato per Israele dal nucleare iraniano, che invece in passato veniva denunciato a ogni pie’ sospinto.

La notizia dell’epidemia che investe tutte le reti di computer iraniane, ma in modo particolare quelle d'uso nel nucleare, è stata diffusa dall’agenzia semiufficiale iraniana Mehr e ripresa dal New York Times. La fonte è il ministero iraniano che gestisce l’impianto atomico di Natanz e le numerose altre strutture, note o segrete, che partecipano al programma nucleare dell’Iran. L’annuncio tende a minimizzare l’effetto dell’infezione e non avanza per ora ipotesi sulla sua provenienza, ma se Tehran è impotente a difendersi o a rivalersi, potrebbe preferire non drammatizzare.

Secondo i commenti degli ambienti di “intelligence” a Washington, l’aggressività e sofisticazione tecnica dell’epidemia fanno ritenere pressochè certo che l’autore sia uno stato e non un’organizzazione privata. Stuxnet – la cui esistenza in forma meno complessa era nota da tempo – ha la capacità di autoriprodursi e attaccare le reti cibernetiche anche quanto sono spente. Se, applicando il principio del “cui prodest”, si ipotizza che l’invasione proviene Israele, ne segue una folla di interrogativi come: lo sapevano gli Stati Uniti? Hanno dato la loro collaborazione? Che natura ha un attacco di questo genere dal punto di vista del diritto internazionale?

L'Italia e la pena di morte

(25 settembre) Essendo di passaggio in questi giorni a New York il ministro Frattini e la ministra Carfagna, si è fatto un gran parlare della posizione dell’Italia e di altri paesi cosiddetti "avanzati" contro la pena di morte, che si contrappone a quella dei malvagi e retrogradi americani che di abolizione della pena non vogliono sentir parlare. E’ vero che l’Italia è il paese di Cesare Beccaria, ma ciò non toglie che l’avversione per la pena capitale solleva problemi molto più profondi di quanto generalmente non si riconosca. Nel migliore dei casi, questa avversione è dovuta non a motivi etici, perchè questi possono essere discussi ad aeternum senza una soluzione, ma a motivi religiosi: ma la religione da un paio di secoli a questa parte non è esclusa dalla vita politica delle nazioni? Nel peggiore dei casi, la campagna abolizionista è dovuta semplicemente al fatto che costa poco, e che procura a buon mercato, a chi la conduce, un’aureola di bontà.

Però il punto cruciale non è questo; ma è chiedersi: vada pure essere buoni con tutti, perfino con gli assassini, perfino con i torturatori. Ma allora come si fa' ad essere buoni e giusti anche nei confronti delle loro vittime, o delle loro famiglie in mancanza delle vittime? Come si pensa che queste possano sentirsi, dopo il dolore sconfinato e irreparabile che gli è stato procurato, quando vedono che i colpevoli se la cavano con una punizione che non è neppure lontanamente paragonabile alla pena che hanno inflitta?

Proprio mentre erano qui i nostri ministri procedeva a New York il processo contro due giovanotti, i quali dopo aver invaso di notte una villetta suburbana, hanno massacrato a legnate il capofamiglia, poi lo hanno legato a un tubo in cantina. La moglie e le due figlie, due bambine di cui una vicina all’adolescenza, sono state invece legate per le mani al capezzale dei propri letti. Giunto il mattino, la signora è stata slegata e accompagnata al bancomat, dove le sono stati fatti ritirare i 15000 dollari esistenti sul conto di famiglia. Poi è stata riportata indietro dai due che, intascati i dollari, l'hanno nuovamente legata.

Allora è cominciata la vera festa dei due mostri: hanno prima stuprato la donna e la bambina più grande; poi le hanno tormentate e battute selvaggiamente.

Il marito, che disotto aveva ripreso i sensi, udiva tutto, le grida, i pianti, infine il tonfo di uno dei corpi gettato a terra dal letto. Poi non sentiva per un certo tempo più nulla; solo, trapelante dal soffitto, il fumo di un incendio. All’arrivo dei vicini prima e poi della polizia si vide che il fuoco era stato causato da litri di benzina di cui i due avevano cosparso la casa per mascherare il delitto, prima di fuggire. La più piccola delle bambine è morta così, asfissiata dal fumo, legata al letto. L’unico superstite della strage è stato l’uomo. I due assassini sono stati rapidamente rintracciati e catturati dalla polizia.

Adesso io chiedo ai “buonisti” italiani, inclusi ministri e ministre, di fare in buona fede un esperimento mentale. Cerchino di compenetrarsi il più possibile dei vari aspetti di questa vicenda, poi di immaginaserli tali e quali ma riferiti alla loro casa, ai loro figli, ai loro genitori, ai loro mariti o mogli. Dopo cinque minuti di concentrazione, si scuotano e pongano a se stessi la domanda: voglio, devo applicare sì o no ai due malviventi la pena di morte? E poi pensino a lungo, supposto che siano loro a sostenere, nell’immaginazione, la parte del marito o del padre superstite, se sembri loro giusto, qualora non esista nel loro paese la pena di morte, che essi debbano serbare per tutta la vita il ricordo di quella notte, e il ricordo della loro famiglia torturata e distrutta, mentre i loro carnefici continuano a vivere, sia pure in luoghi poco ameni, ma insomma a vivere sempre, a rimanere tra quelli, come diceva Dante, cui “fere li occhi ... lo dolce lome”, e magari a uscirsene liberi dopo qualche anno per un'amnistia?

Pensateci un po’, poi fatemi sapere se sostenete sempre, come principio e ovviamente con tutte le cautele, limitazioni e restrizioni del caso, l’abolizione della pena di morte.

I topi e il bastimento Obama

(24 settembre)Se, come pare, Rahm Emanuel, “chief of staff” (capo di gabinetto) della Casa Bianca, lascerà tra pochi giorni l’incarico, il “quartetto” che ha messo in opera la politica economica del presidente Obama sarà andato completamente in pezzi. Altri due membri eminenti del “quartetto”, il direttore del bilancio Peter Orszag e il capo dei consiglieri economici Lawrence Summers, si sono dimessi nei giorni scorsi; resta solamente Timothy Geithner, segretario del tesoro.

La perdita più grave per Obama è Emanuel, un manovratore politico di prima classe anche al di fuori dell’ambito economico e l’uomo che aveva accesso alla “oval room” in qualsiasi momento. Ma Emanuel aveva anche un’altra qualità: di religione ebraica, la sua presenza accanto a Obama era ritenuta e apertamente citata dagli ambienti israelo-americani come una garanzia che il presidente non si sarebbe mai azzardato ad abbandonare la linea categoricamente pro-Israele che ha caratterizzato le precedenti amministrazioni americane.

Se Emanuel lascia veramente tra breve – il motivo è di proporre la sua candidatura come sindaco di Chicago – lo schiaffo a Obama è tanto più bruciante in quanto Obama stesso, accennando tre settimane fa in un’intervista alla radio a una possibile partenza del suo capo di gabinetto, aveva detto di non ritenere comunque che questo potesse avvenire prima delle cruciali prossime elezioni nazionali di medio termine, che sono a novembre.

Sulle ragioni del triplice esodo si fanno in questi giorni le più svariate ipotesi, che sarebbe troppo lungo riportare. Vorrei soltanto aggiungerne una che nessuno fa: tutti i partenti sono ebrei. Geithner, che rimane, non lo è (è un ex episcopale non praticante). Dunque il venir meno della garanzia che gli israelo-americani trovavano nella presenza di Emanuel alla Casa Bianca è ancor più accentuato dalla partenza degli altri due. D’altra parte, Obama ha in questi giorni ripetutamente espresso la volontà di spingere al massimo per la conclusione della pace tra Israele e i Palestinesi, esercitando una pressione che il governo di destra di Israele non trova gradita. C’è allora un nesso tra l’irrigidimento di Obama verso Israele e l’abbandono di Obama da parte dei suoi consiglieri israeliti nel momento più delicato della sua carriera, la fine della prima metà del mandato e la lotta già in corso per il controllo del Congresso nella seconda parte?

Franco Frattini, le nuvole e la Città del Vaticano

(22 settembre) Franco Frattini è il più bravo ministro degli esteri italiano che io abbia incontrato da diversi decenni a questa parte. Parla inappuntabilmente le lingue, conosce una quantità di cose e sa rispondere a tono alle domande, anche le più complicate, dei giornalisti italiani e stranieri.

E’ da lui che ho appreso, per esempio, che in Italia nell'ambiente migratorio avvengono 35.000 mutilazioni genitali femminili ogni anno. O anche di certi aspetti inattesi delle operazioni finanziarie internazionali, come il fatto che se si costringessero le banche a ridurre della metà le esose commissioni applicate sulle rimesse degli emigrati in Europa, i paesi poveri da cui questi provengono riceverebbero 15 miliardi di dollari in più ogni anno.

C’è però un problema, ma non riguarda ciò che dice un ministro così efficiente. Riguarda ciò che non dice, o forse non vuole dire.

Per esempio, quando io gli ho chiesto, al termine di una conferenza stampa a New York, se potesse dichiarare qualcosa sull’inchiesta in corso da parte delle autorità italiane sui movimenti di alcuni conti correnti del Vaticano in Italia, e sul congelamento di circa 30 milioni di dollari appartenenti a tali conti da parte della guardia di finanza, ha fatto un piccolo un salto indietro e ha solamente bofonchiato “no, ci mancava pure l’inchiesta in Vaticano.” Intanto il suo portavoce faceva frenetici gesti per tacitarmi, e come per dire che non avrei mai dovuto chiedere una cosa simile e che non avrei avuto mai una risposta.

Perchè? La Santa Sede non è una nazione straniera? Non intratteniamo con essa rapporti diplomatici al livello di ambasciatore, e dunque il ministero degli esteri non è l’ente giusto per penetrare quanto ci sia di oscuro dietro il Portone di Bronzo? Il Vaticano ha fatto, attraverso un suo portavoce, dichiarazioni ufficiali. E il ministro Frattini? Parlando con un collega che lo vede spesso, gli ho chiesto come mai il ministro fosse caduto dalle nuvole. Ma lui ha escluso che non conoscesse a menadito i fatti, aggiungendo: “E’ solo bravissimo a fingere di cadere dalle nuvole.” Allora, un altro talento che non gli conoscevo.

"Processo di pace" e missione italiana all'ONU

(21 settembre) “La pace in Medio Oriente non è mai sembrata più vicina,” ha detto Abraham Foxman, direttore della “Anti-Defamation League” ebraica negli Stati Uniti, nella riunione che questa ed altre organizzazioni israelo-americane hanno tenuto a New York con il ministro degli esteri italiano Franco Frattini. In realtà la pace non è mai sembrata più distante. I negoziati appaiono in procinto di arenarsi se il premier israeliano Netanyahu non revocherà la sua decisione di sospendere il moratorium che era stato applicato al programma di costruzione abusiva nei terroritori occupati da Israele in Palestina, programma che di per sè blocca ogni possibilità di accordo.

La buona o mala fede con cui il governo israeliano procede nelle trattative traspare chiaramente dalla notizia arrivata a New York da Gerusalemme, che esso sta tentando di servirsi del prolungamento del moratorium (che conta qualcosa solo se dietro c’è una volontà di pace, altrimenti non conta nulla) come moneta di scambio per ottenere la liberazione della spia israelo-americana Johnatan Pollard che dal 1987 è in prigione in America per condanna all’ergastolo. Pollard, che è una delle innumerevoli spie che Israele ha sempre mantenuto e mantiene sul terreno della grande nazione sua protettrice, incluse quelle che rubarono nei laboratori americani il disegno della bomba atomica a vantaggio di Israele, come rivelato recentemente dal carteggio Kissinger-Nixon, deve averla fatta ancora più grossa per essere stato condannato a una pena così lunga. Tutti gli interventi fatti per oltre vent’anni con straordinaria insistenza dai governi israeliani per ottenere il suo condono sono stati sempre respinti dai presidenti americani. Che cosa Pollard abbia realmente fatto è coperto dal segreto di stato, ma uno dei capi del Pentagono si lasciò sfuggire una volta che, tra l’altro, aveva trasmesso a Gerusalemme tutti e dieci i volumi del manuale della rete di sorveglianza globale di spionaggio elettronico americano (Radio-Signal Notations o RASIN), una rivelazione che potrebbe aver compromesso la libertà o la vita di agenti americani in altri paesi.

Nel frattempo il portavoce dei 300.000 coloni ebraici a cui il governo di Tel Aviv ha permesso di insediarsi attraverso gli anni nel territorio palestinese occupato – ciò contro la legge internazionale e le disposizioni delle Nazioni Unite – ha fatto con tutta calma sapere al governo con una lettera, che se esso prenderà nelle trattative un qualsiasi impegno compromettente i loro insediamenti o comunque i loro interessi, i coloni lo faranno immediatamente crollare; e non c’è dubbio che possano farlo, data la loro forza politica, direttamente rappresentata nella coalizione governativa. Queste dunque le prospettive della pace “mai sembrata così vicina.”

La riunione dei capi di sei organizzazioni internazionali israelo-americane con il ministro Frattini, con cui è stata anche inaugurata la nuova, spettacolosa sede della missione italiana all’ONU nell’attico di un grattacielo accanto alle Nazioni Unite, si è svolta a porte chiuse e non si è saputo molto precisamente che cosa si sia detto. Non è però chiaro perchè l’Italia senta il bisogno di tenere all’estero queste riunioni, che un comunicato italiano ha chiamato “tradizionali”, e ancora meno chiaro è perchè le organizzazioni invitate siano soltanto quelle che difendono a spada tratta la linea di occupazione illegale della Palestina tenacemente seguita – in pratica se non in teoria – dal governo d’Israele. Altre invece, che si battono per la soluzione bi-statale e per una vera, rapida pace, non sono state mai state invitate. Tra l’altro, le posizioni di queste ultime organizzazioni sono molto più vicine a quelle attuali del presidente Obama e dei suoi collaboratori (Clinton, Mitchell), di quanto non lo siano quelle delle organizzazioni ebraiche americane di vecchio stampo, che anzi sono, sui punti fondtamentali, nettamente all'opposto.

Ho domandato al ministro Frattini il perchè della omissione delle organizzazioni pacifiste ebraiche dall’incontro con lui e mi ha risposto, molto francamente, di ignorarne l’esistenza; mi ha anzi chiesto di comunicarne il nome al suo ministero, come infatti io ho fatto. Negli Stati Uniti, le principali di queste organizzazioni sono la “J – Street,” che si definisce “il movimento americano pro-Israele e pro-pace” (presidente, Jeremy Ben Ami), basata a Washington ma con una sede a New York (delegato Gil Kulick); e la società “Americans for Peace Now”, che è una filiazione della importantissima associazione pacifista “Peace Now” operante in Israele.

Queste organizzazioni trovano vastissimo appoggio presso la popolazione israelo-americana, quasi tutta di colorazione democratica, che ha appoggiato l’elezione di Obama, mentre sono snobbate dalle organizzazioni più ricche che fanno capo a Wall Street e che sono, all’incirca, quelle ricevute da Frattini. Esse sono abbondantemente documentate su Internet, Googles, Facebook e Twitter, e non vi è difficoltà dunque a conoscerne i recapiti.

Il ministero degli esteri italiano sa certamente anche che nello stesso Israele il movimento per la pace e contro le organizzazioni estremiste che condizionano il governo trova sempre maggiore aderenza tra la popolazione, che nelle “poll” si pronuncia a grande maggioranza, e sia pure, finora, invano, per l’accordo con i palestinesi. Il movimento “Peace Now” sta per inciso organizzando sorvoli del territorio occupato dagli insediamenti illegali, che mostrano come questi siano stati impiantati lungo linee strategiche sulla sommità delle colline, come in attesa di scontri armati (l’occupazione istantanea degli altipiani fu quella che fruttò la vittoria a Israele nella “guerra dei sei giorni”).

Infine le autorità italiane a New York, per esempio il nostro Istituto di Cultura, potrebbero sicuramente dare spazio più di quanto non abbiano fatto finora al movimento pacifista, che sia negli Stati Uniti che in Israele è patrocinato da figure ebraiche di altissimo valore intellettuale. In Israele, la sua popolarità nell’ambiente della cultura è stata solo pochi giorni fa dimostrata dalla decisione dei rappresentanti di tutti gli organismi teatrali di rifiutare, in blocco, ogni esibizione nei nuovi teatri che i “coloni” hanno inaugurato negli insediamenti.

Avvoltoi sulla testa di Obama: Bloomberg tra questi?

(19 settembre) Più la popolarità di Obama si logora contro gli intrattabili problemi lasciatigli in eredità dalla precedente amministrazione, più aumentano, ovviamente, quanti pensano di potergli soffiare il posto quando tra due anni scadrà il suo primo mandato.

Quelli che più ferocemente contestano Obama appartengono al movimento del Tea Party, che si è alimentato di odio per l’abitante nero della Casa Bianca (vedi l’articolo del 15 settembre “Protofascisti all’assalto negli Stati Uniti.”). Primeggiano tra costoro Sarah Palin e il suo ex burattinaio, il già, e forse ancora, aspirante alla presidenza John McCain. Ma tutti e due appartengono al partito repubblicano, dove costituiscono, per via del loro estremismo, un elemento di divisione. Se si presentassero come repubblicani, potrebbero avere il solo effetto di far naufragare alle elezioni del 2012 l’intero partito.

Non è assolutamente escluso che la Palin possa presentarsi come indipendente, ma in ogni caso l’etichetta del “Tea Party” non ha sui tempi lunghi gran possibilità di assicurare la vittoria a chi cerchi di giovarsene per la massima contesa. Questo movimento di tipo qualunquista, per quanto fondato in parte su motivi di protesta sentiti e legittimi è fondamentalmente un fuoco di paglia con una prognosi di sopravvivenza politica non superiore a quella che ebbero a suo tempo, nell’immediato dopoguerra, il qualunquismo italiano e il suo profeta Guglielmo Giannini.

E’ a questo punto che si leva all'orizzonte la sagoma di Michael Bloomberg, sindaco di New York, uno degli uomini più ricchi del mondo e molto ammirato come “doer” (uno che “fa le cose”) e per il buon lavoro che ha fatto sinora nella capitale cervello degli Stati Uniti.

Bloomberg è un vero e convinto uomo di centro: non è sollevato dall’ondata del “Tea Party”, che anzi cerca come può di contenere. Tra un paio di giorni, per esempio, inviterà a casa sua per una festa in suo onore il leader repubblicano del Senato, Harry Reid, che è uno dei bersagli preferiti del “Tea Party” (i preparativi sono già in moto; lo vedo perchè Bloomberg abita a pochi passi da me).

Bloomberg è amico di Obama, è anzi uno dei pochi che Obama invita a Washington per le sue partite di golf. Pur essendo israelita e proveniente da Wall Street, egli non si lascia intimidire dalle potenti lobbies ebraiche americane che cercano di coinvolgere l’occidente nella loro faida con i mussulmani. Per esempio, si è istantaneamente dichiarato, nonostante il furioso ostracismo di queste lobbies, a favore della moschea "ecumenica" progettata come iniziativa di pace da un movimento religioso moderato arabo(sufi) a poca distanza dal luogo dove crollarono le Torri Gemelle.

Al contrario, Bloomberg è amico della grande maggioranza di ebrei che hanno votato democratico, sostengono Obama e invocano una soluzione bistatale e la pace in Palestina. (L’esistenza di questa sempre più poderosa corrente ostile al fanatismo pro-guerra e anti-palestinese - corrente di cui ho promesso di riparlare - sembra essere invece addirittura ignota ai governanti italiani come il ministro degli esteri Frattini, che arrivando a New York tra un paio di giorni per l’Assemblea dell’ONU troverà necessario anche incontrarsi o magari anche prosternarsi davanti agli esponenti delle organizzazioni israelo-americane di destra, non sapendo a quanto pare che esistono anche organizzazioni israelo-americane di segno opposto.)

Bloomberg è entrato nella vita politica come democratico, poi ha preso la candidatura repubblicana dieci anni fa per concorrere alla carica di sindaco di New York infine è diventato indipendente per ottenere un terzo mandato di sindaco due anni fa. Se volesse concorrere alla Casa Bianca, molto difficilmente potrebbe essere ripreso dai due maggiori partiti e dovrebbe presentarsi come indipendente.

Il sindaco di New York è uomo troppo saggio per non saperere che, storicamente, gli esponenti dei “terzi partiti” quasi sempre falliscono nell’assalto alla Casa Bianca (l’esperienza di Ross Perot, un altro magnate di Wall Street, è ancora nella memoria di tutti); e per non sapere anche che, pure storicamente, la carica di sindaco di New York è sempre stata un pessimo trampolino di lancio per questo tipo d’avventura.

Ma, come dicono gli Americani, “there is always a first time,” e Bloomberg stesso non smentisce di avere un grande desiderio, quando tra due anni finirà per sempre la sua carica di sindaco, di trovare un altro lavoro al massimo livello, di trovarlo a Washington e di trovarlo, se in caso, alla Casa Bianca. Se andasse a Washington, ci andrebbe soltanto come presidente, ha detto al New York Times; “è escluso che io accetti, per esempio, una posizione di gabinetto.” Eppoi, se nulla di sublime si materializzasse per Bloomberg nel 2012, egli potrebbe sempre partire in resta per Washington quattro anni dopo. A 73 anni, ne avrebbe alla "inauguration" tre più di Reagan, che è stato il più vecchio dei presidenti americani; ma come si sa, l'età degli uomini è in continuo aumento.

Mano a mano

(18 settembre) Gli americani sono convintissimi che “mano a mano” significhi “all’arma bianca”, o “corpo a corpo”, e usano in questo senso questa espressione italiana con sussiego e orgoglio di poliglotti. Ho scritto due righe al New York Times una cui celebre articolista, Gail Collins, scrive appunto stamattina di questi scontri “mano a mano” nella sua importante “column” nella pagina degli editoriali. Dubito che pubblicheranno la mia correzione; vi farò sapere. (Nota successiva: non l'hanno pubblicata)

Nel caso specifico, l’errore è anche generato dal fatto che in inglese “corpo a corpo” si dice appunto “hand to hand”, ed effettivamente “hand” significa “mano.” Ma questa circostanza non giustifica lo svarione, perchè quando uno usa una lingua straniera, è tenuto a informarsi prima di ciò che dice. Non così gli americani. Uno degli aspetti più singolari di questo aspetto della loro nota semplicità è che si credono in pieno diritto di bistrattare la lingua altrui.

Quando giunsi qui vari anni fa c’era un grande negozio di scarpe femminili in pieno centro, sotto l’insegna: “Elegansima.” Chiesi al proprietario che cosa significasse questa parola e lui, tutto fiero del suo controllo delle lingue, rispose: “Italian for very elegant.” Quando gli osservai che ci mancavano più lettere all’interno, aggiunse che l’aveva saputo, ma che nell’insegna tutta la parola non c’entrava.

(In Italia questo tipo di errori vengono evitati, ma non sempre. In piazza Vittorio Emanuele a Torino, proprio sotto la casa che fu di mio fratello Franco, c’è un negozio di frivolezze femminili che si chiama “La bottega del bijoux.” Una ventina d’anni fa gli osservai che c’era una “x” di troppo ma mi guardarono sdegnosamente. La “x” è ancora lì.)

L’eccessiva sicurezza degli americani non si applica ovviamente solo all’italiano. E’ molto diffusa qui, per esempio, l’idea che l’espressione “coup de grâce” significhi “mossa graziosa.” S’immagini la reazione della danzatrice francese che guardando su un giornale di New York la recensione del suo debutto, legge che l’apparizione “of the ballerina” (altra parola penetrata nella lingua yankee, per fortuna in senso giusto) dette allo spettacolo “the coup de grâce.” Eppure è probabilmente avvenuto.

Quando era in lavorazione a Hollywood “Il padrino 2,” io fui chiamato da Francis Coppola a controllare che non ci fossero nel film errori d’italiano, soprattutto per la parte che avviene in Sicilia. Mi pagarono l’aereo in prima classe da New York a Los Angeles e ritorno e mi installarono nel famoso Beverly Hills Hotel sul Sunset Boulevard.

La mattina dopo andai nel saloncino dove provavano la pellicola appena montata, e lì c’era il regista Coppola, bravissimo ma che non parlava una parola d’italiano. Giravano i titoli d’apertura. Io vidi subito, nella lista dei protagonisti pseudo-italiani, una “Mama” Santuzza o altro nome che fosse. A voce alta interruppi per dire che in Italiano non si dice “Mama;” ma fui contraddetto e beffeggiato da molti, tra cui lo stesso Coppola. Tutti mi assicuravano che ero io a sbagliare. Io risposi che se dopo aver speso tanto per avere lì un Italiano nato e cresciuto a Roma e che avesse fatto le scuole, avevano scoperto che non sapeva scrivere la parola “mamma,” purtroppo avevano perduto dei bei soldi. L’indomani mattina ritornai a New York.

Protofascisti all'assalto in America

(15 settembre) La rivolta nazionale di stampo razzista che ribolle in America dall’epoca dell’insediamento di un negro alla Casa Bianca è scoppiata oggi in occasione delle elezioni primarie per il rinnovo parziale del congresso e dei seggi dei governatori degli Stati Uniti. Una frotta di ignoti, proiettata sul palcoscenico nazionale dal movimento qualunquista e anarchico di destra del “Tea Party” che si oppone a Obama ha conquistato diverse candidature importanti in vista delle elezioni vere e proprie che si terranno tra meno di due mesi, e il panorama politico americano è d’un tratto trasformato. E’ in gioco la democrazia, e ciò che accadrà, sul medio e lungo termine, è per ora soltanto un penoso interrogativo.

Tipico della banda di insorti improvvisamente sulla scena è il multimilionario italo-americano Carl P. Paladino, un totale inesperto di politica che ha conquistato a nome del partito repubblicano nientedimeno che la candidatura a governatore dello stato di New York. Paladino ha tenuto nella campagna elettorale tenuta a sue spese una serie di discorsi aggressivi e sconclusionati contro l’establishment democratico che da tempo controlla l’assemblea statale e il governatorato nella capitale statale di Albany. Il tono minaccioso dei suoi sproloqui è indicato dallo slogan “arriverò ad Albany con un manganello in mano” lanciato al megafono (più precisamente Paladino ha parlato di “una mazza da baseball,” che è l’arma classica del farabutto americano, ma dato il tono la mia traduzione mi sembra giusta.)

Se Paladino avesse anche chiamato l’assemblea di Albany “aula sorda e grigia” avrebbe anche resuscitato in maniera perfetta il fantasma mussoliniano, ma lui questo probabilmente lo ignora, perchè l’ignoranza, non meno della rozzezza e della sicumera, sono caratteristiche essenziali di molti beceri del “Tea Party”. Basti dire che l’idolo del movimento, e sua leader nazionale non dichiarata, è l’ex nemica di Obama ed ex candidata semianalfabeta alla vice-presidenza Sarah Palin, la quale credeva che l’Africa fosse una nazione e aveva creato la
parola “rifudiare”(“refudiate”) in luogo di rifuggire o ripudiare.

Se Paladino diventerà effettivamente, tra due mesi, governatore di New York è naturalmente da vedere, perchè deve ancora battersi, a novembre, contro il candidato del partito democratico che è l' abbastanza popolare Andrew Cuomo (figlio del vecchio governatore Mario). Tuttavia la vittoria di Paladino nelle primarie repubblicane, con una fortissima maggioranza che nessuno aveva previsto, indica la forza e la pericolosità dell’ intero movimento protofascista anti-Obama. (La presenza di Obama stesso alla Casa Bianca non è naturalmente in questione in queste elezioni per il congresso e i governatorati, ma lo sarà tra poco più di due anni; la candidata alla presidenza, allora, potrà benissimo essere Sarah Palin in persona, a meno che non voglia cedere il campo al suo mentore di due anni fa, il candidato repubblicano alla presidenza John McCain, che è un’altra delle star del “Tea Party.”)

Il “Tea Party,” o “festino del tè” per un richiamo storico alla lite fiscale con gli inglesi e la distruzione delle balle di tè nel porto di Boston che segnarono l’inizio della rivoluzione americana nel 1773, è un movimento emerso intorno alla metà del 2009 per protesta contro gli interventi di stimolo all’economia disposti da Obama. Dal movimento il presidente nero viene accusato di occupare abusivamente la Casa Bianca, di criptocomunismo e spesso addirittura paragonato a Stalin e Hitler. E’ un’accozzaglia di libertari, membri del vecchio movimento evangelico che mandò alla Casa Bianca G. W. Bush, difensori della libertà di portare armi, anarchici di sinistra e soprattutto di destra, crociati anti-tasse, mistici e oppositori di ogni intervento di governo; ha un solo comune denominatore, l’odio per Obama. Alcuni dei suoi motivi polemici sono legittimi, ma quello che domina sono la reazione razzista e l’ignoranza. Nella maggioranza è diffusa la convinzione che Obama non sia americano e sia nascostamente mussulmano.

Quale sarà il peso effettivo del “Tea Party” nelle elezioni parziali di novembre, in cui per il partito democratico di Obama sono previste comunque grosse perdite dovute soprattutto alla crisi economica e alle guerre, non è possibile sapere; da una parte il movimento, che è diffuso in grandissima maggioranza nelle file repubblicane, rafforzerà i candidati repubblicani; dall’altra, per il suo ovvio estremismo e protofascismo, potrà dividerli.

E’ quanto avvenne nel 1964, quando la candidatura alla presidenza del carismatico repubblicano moderato Barry Goldwater, detto “Mr. Conservative,” fu compromessa dall’esistenza della libertaria, razzista e fanatica “John Birch Society;” l’avversione di molti repubblicani per questo movimento di frangia divise il partito e facilitò la riconferma del democratico Lyndon Johnson alla Casa Bianca. Però la storia non si ripete mai in modo proprio uguale due volte.

Questi stessi discorsi valgono anche, per ora, per quanto riguarda la riconferma di Obama nel 2012.

Ma quello che soprattutto colpisce è come un movimento così primitivo e grossolano
come il "Tea Party" abbia potuto affermarsi tanto prepotentemente negli Stati Uniti. Sembra un altro sintomo del generale degrado, soprattutto intellettuale, di questo grande Paese, incominciato con le guerre mediorientali di G. W. Bush. Churchill disse che “Dio aiuta gli ubriachi, i bambini e gli Americani,” e parecchie volte nella storia l’America ha avuto di questi profondi rovesci, che poi la sua poderosa democrazia ha sempre capovolto. L’elezione di Obama era stato proprio uno di questi trionfi della democrazia. Ma stavolta quello che sembra veramente a rischio non è solo il quadro politico, ma l’anima del Paese.

Il piano di Obama per il Medio Oriente

(14 settembre) Il meccanismo ideato da Barack Obama con l’accoppiamento diretto, o “link,” tra i negoziati per la pace in Palestina e la fine “simbolica” della guerra americana in Iraq (vedi piu' in basso il precedente articolo, “Obama: meglio tardi che mai”) è molto più dinamico e promettente di quello che può apparire a prima vista.

Non c’è dubbio che il round in corso di negoziati per la Palestina, dopo sessant’anni di fallimenti, ha una probabilità minuscola, per non dire microscopica, di concludersi positivamente, e nessuno s’illude del contrario. Non c’è nemmeno dubbio che la fine “simbolica” della guerra americana in Iraq – costituita dal ritiro immediato e già incominciato di quasi due terzi delle truppe americane, mentre il restante terzo dovrebbe astenersi da operazioni offensiva e solo aiutare in varie maniere le forze iraqene addestrate negli scorsi mesi e il governo irakeno –abbia una probabilità ancora più infima di evitare all’America una disfatta meno umiliante di quella del Vietnam. Neppure su questo punto Obama e i suoi si illudono.

Ma l’accoppiamento tra le due questioni permette di sperare in maggiori possibilità di successo sia per l’una che per l’altra. Se il negoziato israelo-palestinese segnasse qualche progresso verso la desiderata soluzione – due stati indipendenti e pacifici sulla terra palestinese – o addirittura arrivasse al successo, questo si rifletterebbe istantaneamente in un miglioramento dell’umore generale del mondo islamico nei confronti dell’occidente, e questo miglioramento, a sua volta, faciliterebbe il raggiungimento dell’obbiettivo in Iraq: un paese relativamente stabile, e lo sganciamento definitivo delle forze americane per l’agosto 2011 che Obama ha comunque già promesso agli Stati Uniti.

A sua volta l’eventuale stabilizzazione dell’Iraq darebbe agli Stati Uniti un prestigio e una forza concreta nuove, che aumenterebbero la loro influenza anche sull’ arbitrato Israelo-Palestinese.

Il risvolto opposto di questo scenario indubbiamente ultra-ottimistico non avrebbe effetti negativi apprezzabili. Per la semplice ragione che le cose in tutti e due i settori, Palestina e Iraq, vanno già talmente male, che peggio difficilmente potrebbero andare. Nuovi fallimenti raggiungerebbero anzi punti critici, che imporrebbero, per forza di cose, soluzioni radicalmente nuove. Il naufragio stesso dei tentativi fatti in precedenza varrebbe a giustificare altri tentativi radicali.

Gli sviluppi effettivi che si profilano sull’orizzonte, nella visione del tutto realistica di Obama, sono due: insuccesso del negoziato per la Palestina, dato che il lato isrealiano, che da dieci anni, dominato dalle forze interne estremiste, non ha mai dimostrato, nonostante gli attuali atteggiamenti concilianti di Bibi Netanyahu, alcun interesse a una soluzione (una circostanza di cui gli Stati Uniti e l’opinione pubblica americana cominciano gradualmente a convincersi: "Perchè gli Ebrei non sono interessati alla pace" è il titolo di copertina di uno degli ultimi numeri di "Time"); e lo sfascio generale dell’Iraq dopo il ritiro totale degli occidentali.

Ma dato pure che questi due crolli si verifichino effettivamente, gli Stati Uniti uscirebbero dalle macerie largamente rafforzati.

Dall’Iraq, dopo l’immenso sforzo fatto per salvare l’unità del paese, si tirerebbero fuori comunque alla data prevista e a fronte alta, per andare a concentrare ogni loro mezzo su un altro quadrante di guerra, quello dell’Afganistan, o più precisamente della regione afgano-pakistana o Afpak, non lontana dagli arsenali atomici pakistani e dove è rifugiata Al Qaeda: questo è il versante che in realtà preme a Obama e che veramente, anzi clamorosamente, investe gli interessi nazionali occidentali.

Una volta fuori della mischia, gli Stati Uniti sarebbero pienamente liberi di spingere per soluzioni pragmatiche anche in Iraq: il distacco del Curdistan dalla nazione, per esempio; una divisione del rimanente, per quanto difficile, tra sciiti e sunniti, se non riescono a trovare un accordo (del resto questa è la soluzione secessionista sempre ritenuta inevitabile e favorita dal vice-presidente Biden).

Di fronte a Israele e ai Palestinesi, gli americani, che una volta tanto, avendo riconosciuto il “link” tra il conflitto tra i due avversari e il conflitto tra l’Islam e l’occidente, hanno evidenziato come il secondo giustifichi pienamente l’intervento americano nel primo, potranno, pure per la prima volta, prendere una posizione arbitrale veramente quidistante tra le due parti ed esercitarla con forza.

Con questo passeranno finalmente dalla parte del torto, occupata finora con il sostegno automatico d'Israele dovuto alla spinta interna della lobby israelo-americana, a quella della ragione e dell'onesto arbitrato. In questo quadro potranno essere prospettare, o addirittura imposte, nuove strade verso una soluzione. Per esempio con la chiamata dell’ Hamas, vera legale rappresentante del popolo palestinese, a partecipare alle trattative.

D’altra parte non esiste neanche, in astratto, solo la soluzione bi-statale per una sistemazione della Palestina: per esempio esiste, per quanto sgradita a Israele, la soluzione bi-nazionale, cioè di un unico stato laico, e non teocratico come quello installato dagli Ebrei in seno all’Islam, che accolga sia il popolo ebraico che quello palestinese. Ed esiste anche la soluzione giordana, se la dinastia hashemita che controlla Amman si risolvesse a dividere il potere con i palestinesi in cambio del recupero del territorio transgiordano e dell’acquisto di Gaza, che per la prima darebbe a questo stato uno sbocco sul mare.

Qualcuno ha detto che una quadratura del circolo palestinese è impossibile perchè essa implica due “piccole guerre civili,” una negli Stati Uniti, tra il governo di Obama e l’elemento israelo-americano che appoggia l’estremismo ebraico, l’altra a Gerusalemme, tra l’elemento moderato ebraico di maggioranza, e quello ultra-ortodosso. Ma anche qui la situazione sta lentamente cambiando per tutti e due i Paesi, come diremo in un altro articolo.