Un "quack" molto misterioso

(30 settembre) – “Quack, grug… uhu!” Attenzione: potrebbero essere le prime parole di un alieno che si siano mai udite sulla Terra.

Questa mattina ero all’inaugurazione del nuovo super-planetario dell’American Museum of Natural History di New York, che può mostrare, in forme dirette o generate dai computer, una buona fetta dell’universo, e c’erano, oltre ai giornalisti, astronomi, astrofisici e altri scienziati importanti.

Quando, prima che si spegnessero le luci, il noto astronomo e portavoce del museo, Neil Tyson-DeGrasse ha fatto una descrizione del nuovo super-planetario al radio-microfono della sala, l’onda elettromagnetica si è interrotta per due secondi dando luogo ai misteriosi suoni riprodotti approssimativamente più sopra. Al ritorno del sonoro l’astronomo ha buttato lì: “Era l’alieno del pianeta scoperto ieri.” Molti si sono messi a ridere, però quello non era stato un rumore, ma, sia pure animalesca, una voce, e la battuta di Tyson-De Grasse totalmente da ridere non era.

Il pianeta “G” della stella Gliese 581, la cui scoperta è stata annunciata ieri (veda, chi vuole, il sito scientifico world-science.net) è il primo che, a detta, degli scienziati, ha caratteristiche tali da ospitare la vita, anche una vita intelligente come la nostra. D’altra parte le onde elettromagnetiche viaggiano, come si sa, per tutto l’universo.

L’unico problema è che la stella e i suoi pianeti si trovano a una ventina d’anni luce dalla terra. Quindi è difficile che l’alieno, o l’aliena, si rivolgesse proprio a quella riunione di studiosi, che dovrebbero aver prevista vent’anni fa. Difficile ma non impossibile, se la loro avanzatissima civiltà avesse già trovato il modo di viaggiare a velocità superiore a quella della luce…

In caduta libera

(28 settembre) Le forze oscure (così le ha chiamate qualche tempo fa l’ex presidente Carter) che stanno conducendo l’America dall’essere, come si diceva qui, “the city on the hill,” una città di speranza e di luce, all’essere, lasciatemi dire, una città della merda premono implacabilmente. Adesso è la volta dei soldati mercenari drogati che in Afganistan ammazzano per gusto e fanno collezione di teste, di dita, di altri brani di civili morti, nonchè di fotografie necrofiliache ancora più orrende delle foto di disgraziati trascinati nudi sul pavimento delle prigioni dell’Iraq da soldatesse impazzite. Sì, è vero, perlomeno questi dementi sono apparsi e appaiono davanti alle corti di giustizia americane. Ma davanti a quali corti appaiono i responsabili di queste guerre che non accennano a finire, di queste guerre condotte a distanza con le armi vigliacche degli apparecchi senza pilota, che per un vero nemico trucidano cinquanta innocenti?

Altre novità: la guerra portata da questi apparecchi, adesso, in Pakistan – il terzo paese arabo in cui l’America sta sprofondando, e dietro al quale aspettano in fila altri paesi musulmani come lo Yemen, la Somalia – è che il numero delle incursioni dirette nella regione del Waziristan settentrionale da piloti invulnerabili seduti in tutta pace negli uffici della CIA vicino a Washington, stanno aumentando ogni giorno. Altre stragi vengono perpetrate da elicotteri che fanno base in Afganistan. Forse è vero che il generale Petraeus riuscirà tra un anno a ritirare le truppe americane dall’Afganistan, al prezzo, probabilmente, di restituire al Taliban il controllo del paese. Ma mi pare difficile che potranno uscire in buone condizioni dal Pakistan, dove la vera guerra è già avviata.

In Iraq, l’organizzazione associata con il capo del terrorismo arabo Bin Laden, “Al Qaeda in Mesopotamia,” che era stata data per scomparsa e vinta, ha improvvisamente rialzato la testa ora che gli Americani hanno fatto le prime mosse per abbandonare il paese, e ha cominciato a fare stragi in diverse province. “Come abbia potuto operare questo capovolgimento è un mistero,” scrive l’inviato del New York Times. I missili dei ribelli, per quanto non molto precisi, già cadono in quantità sulla "zona verde" fortificata di Bagdad che ospita il governo e i comandi americani, e potrebbe non essere non lontano il giorno in cui questi dovranno evacuare il Paese aggrappati agli elicotteri, come avvenne in Vietnam.

Di fronte a questo sfascio generale l’esile Obama appare impotente. Il negoziato che egli si è impegnato, con coraggio date le ricadute contro di lui sul piano interno, a spingere avanti per spegnere il conflitto che brucia da cinquant’anni tra gli israeliani e i palestinesi, e che è all’origine di tutto, è in situazione di stallo. “Noi non comprendiamo come l’America possa continuare a dirsi contro l’allargamento dell’occupazione del territorio arabo da parte dei coloni ebrei, ma poi non faccia nulla per mettervi fine; non comprendiamo perchè l’America sia incapace di fermarli", ha detto timidamente il negoziatore palestinese. L’ex presidente Carter, l’unico che si sia dedicato allo studio delle “forze oscure,” potrebbe dargli una spiegazione.

Israele ha già attaccato l'Iran?

(26 settembre) Le strutture cibernetiche degli impianti atomici iraniani sono state invase da un virus a cui gli organi dello spionaggio americano danno il nome di Stuxnet. Se è Israele che attacca, questo spiegherebbe lo strano silenzio mantenuto da qualche tempo in qua dalle autorità israeliane rispetto al cosiddetto ‘pericolo esistenziale’ rappresentato per Israele dal nucleare iraniano, che invece in passato veniva denunciato a ogni pie’ sospinto.

La notizia dell’epidemia che investe tutte le reti di computer iraniane, ma in modo particolare quelle d'uso nel nucleare, è stata diffusa dall’agenzia semiufficiale iraniana Mehr e ripresa dal New York Times. La fonte è il ministero iraniano che gestisce l’impianto atomico di Natanz e le numerose altre strutture, note o segrete, che partecipano al programma nucleare dell’Iran. L’annuncio tende a minimizzare l’effetto dell’infezione e non avanza per ora ipotesi sulla sua provenienza, ma se Tehran è impotente a difendersi o a rivalersi, potrebbe preferire non drammatizzare.

Secondo i commenti degli ambienti di “intelligence” a Washington, l’aggressività e sofisticazione tecnica dell’epidemia fanno ritenere pressochè certo che l’autore sia uno stato e non un’organizzazione privata. Stuxnet – la cui esistenza in forma meno complessa era nota da tempo – ha la capacità di autoriprodursi e attaccare le reti cibernetiche anche quanto sono spente. Se, applicando il principio del “cui prodest”, si ipotizza che l’invasione proviene Israele, ne segue una folla di interrogativi come: lo sapevano gli Stati Uniti? Hanno dato la loro collaborazione? Che natura ha un attacco di questo genere dal punto di vista del diritto internazionale?

L'Italia e la pena di morte

(25 settembre) Essendo di passaggio in questi giorni a New York il ministro Frattini e la ministra Carfagna, si è fatto un gran parlare della posizione dell’Italia e di altri paesi cosiddetti "avanzati" contro la pena di morte, che si contrappone a quella dei malvagi e retrogradi americani che di abolizione della pena non vogliono sentir parlare. E’ vero che l’Italia è il paese di Cesare Beccaria, ma ciò non toglie che l’avversione per la pena capitale solleva problemi molto più profondi di quanto generalmente non si riconosca. Nel migliore dei casi, questa avversione è dovuta non a motivi etici, perchè questi possono essere discussi ad aeternum senza una soluzione, ma a motivi religiosi: ma la religione da un paio di secoli a questa parte non è esclusa dalla vita politica delle nazioni? Nel peggiore dei casi, la campagna abolizionista è dovuta semplicemente al fatto che costa poco, e che procura a buon mercato, a chi la conduce, un’aureola di bontà.

Però il punto cruciale non è questo; ma è chiedersi: vada pure essere buoni con tutti, perfino con gli assassini, perfino con i torturatori. Ma allora come si fa' ad essere buoni e giusti anche nei confronti delle loro vittime, o delle loro famiglie in mancanza delle vittime? Come si pensa che queste possano sentirsi, dopo il dolore sconfinato e irreparabile che gli è stato procurato, quando vedono che i colpevoli se la cavano con una punizione che non è neppure lontanamente paragonabile alla pena che hanno inflitta?

Proprio mentre erano qui i nostri ministri procedeva a New York il processo contro due giovanotti, i quali dopo aver invaso di notte una villetta suburbana, hanno massacrato a legnate il capofamiglia, poi lo hanno legato a un tubo in cantina. La moglie e le due figlie, due bambine di cui una vicina all’adolescenza, sono state invece legate per le mani al capezzale dei propri letti. Giunto il mattino, la signora è stata slegata e accompagnata al bancomat, dove le sono stati fatti ritirare i 15000 dollari esistenti sul conto di famiglia. Poi è stata riportata indietro dai due che, intascati i dollari, l'hanno nuovamente legata.

Allora è cominciata la vera festa dei due mostri: hanno prima stuprato la donna e la bambina più grande; poi le hanno tormentate e battute selvaggiamente.

Il marito, che disotto aveva ripreso i sensi, udiva tutto, le grida, i pianti, infine il tonfo di uno dei corpi gettato a terra dal letto. Poi non sentiva per un certo tempo più nulla; solo, trapelante dal soffitto, il fumo di un incendio. All’arrivo dei vicini prima e poi della polizia si vide che il fuoco era stato causato da litri di benzina di cui i due avevano cosparso la casa per mascherare il delitto, prima di fuggire. La più piccola delle bambine è morta così, asfissiata dal fumo, legata al letto. L’unico superstite della strage è stato l’uomo. I due assassini sono stati rapidamente rintracciati e catturati dalla polizia.

Adesso io chiedo ai “buonisti” italiani, inclusi ministri e ministre, di fare in buona fede un esperimento mentale. Cerchino di compenetrarsi il più possibile dei vari aspetti di questa vicenda, poi di immaginaserli tali e quali ma riferiti alla loro casa, ai loro figli, ai loro genitori, ai loro mariti o mogli. Dopo cinque minuti di concentrazione, si scuotano e pongano a se stessi la domanda: voglio, devo applicare sì o no ai due malviventi la pena di morte? E poi pensino a lungo, supposto che siano loro a sostenere, nell’immaginazione, la parte del marito o del padre superstite, se sembri loro giusto, qualora non esista nel loro paese la pena di morte, che essi debbano serbare per tutta la vita il ricordo di quella notte, e il ricordo della loro famiglia torturata e distrutta, mentre i loro carnefici continuano a vivere, sia pure in luoghi poco ameni, ma insomma a vivere sempre, a rimanere tra quelli, come diceva Dante, cui “fere li occhi ... lo dolce lome”, e magari a uscirsene liberi dopo qualche anno per un'amnistia?

Pensateci un po’, poi fatemi sapere se sostenete sempre, come principio e ovviamente con tutte le cautele, limitazioni e restrizioni del caso, l’abolizione della pena di morte.

I topi e il bastimento Obama

(24 settembre)Se, come pare, Rahm Emanuel, “chief of staff” (capo di gabinetto) della Casa Bianca, lascerà tra pochi giorni l’incarico, il “quartetto” che ha messo in opera la politica economica del presidente Obama sarà andato completamente in pezzi. Altri due membri eminenti del “quartetto”, il direttore del bilancio Peter Orszag e il capo dei consiglieri economici Lawrence Summers, si sono dimessi nei giorni scorsi; resta solamente Timothy Geithner, segretario del tesoro.

La perdita più grave per Obama è Emanuel, un manovratore politico di prima classe anche al di fuori dell’ambito economico e l’uomo che aveva accesso alla “oval room” in qualsiasi momento. Ma Emanuel aveva anche un’altra qualità: di religione ebraica, la sua presenza accanto a Obama era ritenuta e apertamente citata dagli ambienti israelo-americani come una garanzia che il presidente non si sarebbe mai azzardato ad abbandonare la linea categoricamente pro-Israele che ha caratterizzato le precedenti amministrazioni americane.

Se Emanuel lascia veramente tra breve – il motivo è di proporre la sua candidatura come sindaco di Chicago – lo schiaffo a Obama è tanto più bruciante in quanto Obama stesso, accennando tre settimane fa in un’intervista alla radio a una possibile partenza del suo capo di gabinetto, aveva detto di non ritenere comunque che questo potesse avvenire prima delle cruciali prossime elezioni nazionali di medio termine, che sono a novembre.

Sulle ragioni del triplice esodo si fanno in questi giorni le più svariate ipotesi, che sarebbe troppo lungo riportare. Vorrei soltanto aggiungerne una che nessuno fa: tutti i partenti sono ebrei. Geithner, che rimane, non lo è (è un ex episcopale non praticante). Dunque il venir meno della garanzia che gli israelo-americani trovavano nella presenza di Emanuel alla Casa Bianca è ancor più accentuato dalla partenza degli altri due. D’altra parte, Obama ha in questi giorni ripetutamente espresso la volontà di spingere al massimo per la conclusione della pace tra Israele e i Palestinesi, esercitando una pressione che il governo di destra di Israele non trova gradita. C’è allora un nesso tra l’irrigidimento di Obama verso Israele e l’abbandono di Obama da parte dei suoi consiglieri israeliti nel momento più delicato della sua carriera, la fine della prima metà del mandato e la lotta già in corso per il controllo del Congresso nella seconda parte?

Franco Frattini, le nuvole e la Città del Vaticano

(22 settembre) Franco Frattini è il più bravo ministro degli esteri italiano che io abbia incontrato da diversi decenni a questa parte. Parla inappuntabilmente le lingue, conosce una quantità di cose e sa rispondere a tono alle domande, anche le più complicate, dei giornalisti italiani e stranieri.

E’ da lui che ho appreso, per esempio, che in Italia nell'ambiente migratorio avvengono 35.000 mutilazioni genitali femminili ogni anno. O anche di certi aspetti inattesi delle operazioni finanziarie internazionali, come il fatto che se si costringessero le banche a ridurre della metà le esose commissioni applicate sulle rimesse degli emigrati in Europa, i paesi poveri da cui questi provengono riceverebbero 15 miliardi di dollari in più ogni anno.

C’è però un problema, ma non riguarda ciò che dice un ministro così efficiente. Riguarda ciò che non dice, o forse non vuole dire.

Per esempio, quando io gli ho chiesto, al termine di una conferenza stampa a New York, se potesse dichiarare qualcosa sull’inchiesta in corso da parte delle autorità italiane sui movimenti di alcuni conti correnti del Vaticano in Italia, e sul congelamento di circa 30 milioni di dollari appartenenti a tali conti da parte della guardia di finanza, ha fatto un piccolo un salto indietro e ha solamente bofonchiato “no, ci mancava pure l’inchiesta in Vaticano.” Intanto il suo portavoce faceva frenetici gesti per tacitarmi, e come per dire che non avrei mai dovuto chiedere una cosa simile e che non avrei avuto mai una risposta.

Perchè? La Santa Sede non è una nazione straniera? Non intratteniamo con essa rapporti diplomatici al livello di ambasciatore, e dunque il ministero degli esteri non è l’ente giusto per penetrare quanto ci sia di oscuro dietro il Portone di Bronzo? Il Vaticano ha fatto, attraverso un suo portavoce, dichiarazioni ufficiali. E il ministro Frattini? Parlando con un collega che lo vede spesso, gli ho chiesto come mai il ministro fosse caduto dalle nuvole. Ma lui ha escluso che non conoscesse a menadito i fatti, aggiungendo: “E’ solo bravissimo a fingere di cadere dalle nuvole.” Allora, un altro talento che non gli conoscevo.

"Processo di pace" e missione italiana all'ONU

(21 settembre) “La pace in Medio Oriente non è mai sembrata più vicina,” ha detto Abraham Foxman, direttore della “Anti-Defamation League” ebraica negli Stati Uniti, nella riunione che questa ed altre organizzazioni israelo-americane hanno tenuto a New York con il ministro degli esteri italiano Franco Frattini. In realtà la pace non è mai sembrata più distante. I negoziati appaiono in procinto di arenarsi se il premier israeliano Netanyahu non revocherà la sua decisione di sospendere il moratorium che era stato applicato al programma di costruzione abusiva nei terroritori occupati da Israele in Palestina, programma che di per sè blocca ogni possibilità di accordo.

La buona o mala fede con cui il governo israeliano procede nelle trattative traspare chiaramente dalla notizia arrivata a New York da Gerusalemme, che esso sta tentando di servirsi del prolungamento del moratorium (che conta qualcosa solo se dietro c’è una volontà di pace, altrimenti non conta nulla) come moneta di scambio per ottenere la liberazione della spia israelo-americana Johnatan Pollard che dal 1987 è in prigione in America per condanna all’ergastolo. Pollard, che è una delle innumerevoli spie che Israele ha sempre mantenuto e mantiene sul terreno della grande nazione sua protettrice, incluse quelle che rubarono nei laboratori americani il disegno della bomba atomica a vantaggio di Israele, come rivelato recentemente dal carteggio Kissinger-Nixon, deve averla fatta ancora più grossa per essere stato condannato a una pena così lunga. Tutti gli interventi fatti per oltre vent’anni con straordinaria insistenza dai governi israeliani per ottenere il suo condono sono stati sempre respinti dai presidenti americani. Che cosa Pollard abbia realmente fatto è coperto dal segreto di stato, ma uno dei capi del Pentagono si lasciò sfuggire una volta che, tra l’altro, aveva trasmesso a Gerusalemme tutti e dieci i volumi del manuale della rete di sorveglianza globale di spionaggio elettronico americano (Radio-Signal Notations o RASIN), una rivelazione che potrebbe aver compromesso la libertà o la vita di agenti americani in altri paesi.

Nel frattempo il portavoce dei 300.000 coloni ebraici a cui il governo di Tel Aviv ha permesso di insediarsi attraverso gli anni nel territorio palestinese occupato – ciò contro la legge internazionale e le disposizioni delle Nazioni Unite – ha fatto con tutta calma sapere al governo con una lettera, che se esso prenderà nelle trattative un qualsiasi impegno compromettente i loro insediamenti o comunque i loro interessi, i coloni lo faranno immediatamente crollare; e non c’è dubbio che possano farlo, data la loro forza politica, direttamente rappresentata nella coalizione governativa. Queste dunque le prospettive della pace “mai sembrata così vicina.”

La riunione dei capi di sei organizzazioni internazionali israelo-americane con il ministro Frattini, con cui è stata anche inaugurata la nuova, spettacolosa sede della missione italiana all’ONU nell’attico di un grattacielo accanto alle Nazioni Unite, si è svolta a porte chiuse e non si è saputo molto precisamente che cosa si sia detto. Non è però chiaro perchè l’Italia senta il bisogno di tenere all’estero queste riunioni, che un comunicato italiano ha chiamato “tradizionali”, e ancora meno chiaro è perchè le organizzazioni invitate siano soltanto quelle che difendono a spada tratta la linea di occupazione illegale della Palestina tenacemente seguita – in pratica se non in teoria – dal governo d’Israele. Altre invece, che si battono per la soluzione bi-statale e per una vera, rapida pace, non sono state mai state invitate. Tra l’altro, le posizioni di queste ultime organizzazioni sono molto più vicine a quelle attuali del presidente Obama e dei suoi collaboratori (Clinton, Mitchell), di quanto non lo siano quelle delle organizzazioni ebraiche americane di vecchio stampo, che anzi sono, sui punti fondtamentali, nettamente all'opposto.

Ho domandato al ministro Frattini il perchè della omissione delle organizzazioni pacifiste ebraiche dall’incontro con lui e mi ha risposto, molto francamente, di ignorarne l’esistenza; mi ha anzi chiesto di comunicarne il nome al suo ministero, come infatti io ho fatto. Negli Stati Uniti, le principali di queste organizzazioni sono la “J – Street,” che si definisce “il movimento americano pro-Israele e pro-pace” (presidente, Jeremy Ben Ami), basata a Washington ma con una sede a New York (delegato Gil Kulick); e la società “Americans for Peace Now”, che è una filiazione della importantissima associazione pacifista “Peace Now” operante in Israele.

Queste organizzazioni trovano vastissimo appoggio presso la popolazione israelo-americana, quasi tutta di colorazione democratica, che ha appoggiato l’elezione di Obama, mentre sono snobbate dalle organizzazioni più ricche che fanno capo a Wall Street e che sono, all’incirca, quelle ricevute da Frattini. Esse sono abbondantemente documentate su Internet, Googles, Facebook e Twitter, e non vi è difficoltà dunque a conoscerne i recapiti.

Il ministero degli esteri italiano sa certamente anche che nello stesso Israele il movimento per la pace e contro le organizzazioni estremiste che condizionano il governo trova sempre maggiore aderenza tra la popolazione, che nelle “poll” si pronuncia a grande maggioranza, e sia pure, finora, invano, per l’accordo con i palestinesi. Il movimento “Peace Now” sta per inciso organizzando sorvoli del territorio occupato dagli insediamenti illegali, che mostrano come questi siano stati impiantati lungo linee strategiche sulla sommità delle colline, come in attesa di scontri armati (l’occupazione istantanea degli altipiani fu quella che fruttò la vittoria a Israele nella “guerra dei sei giorni”).

Infine le autorità italiane a New York, per esempio il nostro Istituto di Cultura, potrebbero sicuramente dare spazio più di quanto non abbiano fatto finora al movimento pacifista, che sia negli Stati Uniti che in Israele è patrocinato da figure ebraiche di altissimo valore intellettuale. In Israele, la sua popolarità nell’ambiente della cultura è stata solo pochi giorni fa dimostrata dalla decisione dei rappresentanti di tutti gli organismi teatrali di rifiutare, in blocco, ogni esibizione nei nuovi teatri che i “coloni” hanno inaugurato negli insediamenti.

Avvoltoi sulla testa di Obama: Bloomberg tra questi?

(19 settembre) Più la popolarità di Obama si logora contro gli intrattabili problemi lasciatigli in eredità dalla precedente amministrazione, più aumentano, ovviamente, quanti pensano di potergli soffiare il posto quando tra due anni scadrà il suo primo mandato.

Quelli che più ferocemente contestano Obama appartengono al movimento del Tea Party, che si è alimentato di odio per l’abitante nero della Casa Bianca (vedi l’articolo del 15 settembre “Protofascisti all’assalto negli Stati Uniti.”). Primeggiano tra costoro Sarah Palin e il suo ex burattinaio, il già, e forse ancora, aspirante alla presidenza John McCain. Ma tutti e due appartengono al partito repubblicano, dove costituiscono, per via del loro estremismo, un elemento di divisione. Se si presentassero come repubblicani, potrebbero avere il solo effetto di far naufragare alle elezioni del 2012 l’intero partito.

Non è assolutamente escluso che la Palin possa presentarsi come indipendente, ma in ogni caso l’etichetta del “Tea Party” non ha sui tempi lunghi gran possibilità di assicurare la vittoria a chi cerchi di giovarsene per la massima contesa. Questo movimento di tipo qualunquista, per quanto fondato in parte su motivi di protesta sentiti e legittimi è fondamentalmente un fuoco di paglia con una prognosi di sopravvivenza politica non superiore a quella che ebbero a suo tempo, nell’immediato dopoguerra, il qualunquismo italiano e il suo profeta Guglielmo Giannini.

E’ a questo punto che si leva all'orizzonte la sagoma di Michael Bloomberg, sindaco di New York, uno degli uomini più ricchi del mondo e molto ammirato come “doer” (uno che “fa le cose”) e per il buon lavoro che ha fatto sinora nella capitale cervello degli Stati Uniti.

Bloomberg è un vero e convinto uomo di centro: non è sollevato dall’ondata del “Tea Party”, che anzi cerca come può di contenere. Tra un paio di giorni, per esempio, inviterà a casa sua per una festa in suo onore il leader repubblicano del Senato, Harry Reid, che è uno dei bersagli preferiti del “Tea Party” (i preparativi sono già in moto; lo vedo perchè Bloomberg abita a pochi passi da me).

Bloomberg è amico di Obama, è anzi uno dei pochi che Obama invita a Washington per le sue partite di golf. Pur essendo israelita e proveniente da Wall Street, egli non si lascia intimidire dalle potenti lobbies ebraiche americane che cercano di coinvolgere l’occidente nella loro faida con i mussulmani. Per esempio, si è istantaneamente dichiarato, nonostante il furioso ostracismo di queste lobbies, a favore della moschea "ecumenica" progettata come iniziativa di pace da un movimento religioso moderato arabo(sufi) a poca distanza dal luogo dove crollarono le Torri Gemelle.

Al contrario, Bloomberg è amico della grande maggioranza di ebrei che hanno votato democratico, sostengono Obama e invocano una soluzione bistatale e la pace in Palestina. (L’esistenza di questa sempre più poderosa corrente ostile al fanatismo pro-guerra e anti-palestinese - corrente di cui ho promesso di riparlare - sembra essere invece addirittura ignota ai governanti italiani come il ministro degli esteri Frattini, che arrivando a New York tra un paio di giorni per l’Assemblea dell’ONU troverà necessario anche incontrarsi o magari anche prosternarsi davanti agli esponenti delle organizzazioni israelo-americane di destra, non sapendo a quanto pare che esistono anche organizzazioni israelo-americane di segno opposto.)

Bloomberg è entrato nella vita politica come democratico, poi ha preso la candidatura repubblicana dieci anni fa per concorrere alla carica di sindaco di New York infine è diventato indipendente per ottenere un terzo mandato di sindaco due anni fa. Se volesse concorrere alla Casa Bianca, molto difficilmente potrebbe essere ripreso dai due maggiori partiti e dovrebbe presentarsi come indipendente.

Il sindaco di New York è uomo troppo saggio per non saperere che, storicamente, gli esponenti dei “terzi partiti” quasi sempre falliscono nell’assalto alla Casa Bianca (l’esperienza di Ross Perot, un altro magnate di Wall Street, è ancora nella memoria di tutti); e per non sapere anche che, pure storicamente, la carica di sindaco di New York è sempre stata un pessimo trampolino di lancio per questo tipo d’avventura.

Ma, come dicono gli Americani, “there is always a first time,” e Bloomberg stesso non smentisce di avere un grande desiderio, quando tra due anni finirà per sempre la sua carica di sindaco, di trovare un altro lavoro al massimo livello, di trovarlo a Washington e di trovarlo, se in caso, alla Casa Bianca. Se andasse a Washington, ci andrebbe soltanto come presidente, ha detto al New York Times; “è escluso che io accetti, per esempio, una posizione di gabinetto.” Eppoi, se nulla di sublime si materializzasse per Bloomberg nel 2012, egli potrebbe sempre partire in resta per Washington quattro anni dopo. A 73 anni, ne avrebbe alla "inauguration" tre più di Reagan, che è stato il più vecchio dei presidenti americani; ma come si sa, l'età degli uomini è in continuo aumento.

Mano a mano

(18 settembre) Gli americani sono convintissimi che “mano a mano” significhi “all’arma bianca”, o “corpo a corpo”, e usano in questo senso questa espressione italiana con sussiego e orgoglio di poliglotti. Ho scritto due righe al New York Times una cui celebre articolista, Gail Collins, scrive appunto stamattina di questi scontri “mano a mano” nella sua importante “column” nella pagina degli editoriali. Dubito che pubblicheranno la mia correzione; vi farò sapere. (Nota successiva: non l'hanno pubblicata)

Nel caso specifico, l’errore è anche generato dal fatto che in inglese “corpo a corpo” si dice appunto “hand to hand”, ed effettivamente “hand” significa “mano.” Ma questa circostanza non giustifica lo svarione, perchè quando uno usa una lingua straniera, è tenuto a informarsi prima di ciò che dice. Non così gli americani. Uno degli aspetti più singolari di questo aspetto della loro nota semplicità è che si credono in pieno diritto di bistrattare la lingua altrui.

Quando giunsi qui vari anni fa c’era un grande negozio di scarpe femminili in pieno centro, sotto l’insegna: “Elegansima.” Chiesi al proprietario che cosa significasse questa parola e lui, tutto fiero del suo controllo delle lingue, rispose: “Italian for very elegant.” Quando gli osservai che ci mancavano più lettere all’interno, aggiunse che l’aveva saputo, ma che nell’insegna tutta la parola non c’entrava.

(In Italia questo tipo di errori vengono evitati, ma non sempre. In piazza Vittorio Emanuele a Torino, proprio sotto la casa che fu di mio fratello Franco, c’è un negozio di frivolezze femminili che si chiama “La bottega del bijoux.” Una ventina d’anni fa gli osservai che c’era una “x” di troppo ma mi guardarono sdegnosamente. La “x” è ancora lì.)

L’eccessiva sicurezza degli americani non si applica ovviamente solo all’italiano. E’ molto diffusa qui, per esempio, l’idea che l’espressione “coup de grâce” significhi “mossa graziosa.” S’immagini la reazione della danzatrice francese che guardando su un giornale di New York la recensione del suo debutto, legge che l’apparizione “of the ballerina” (altra parola penetrata nella lingua yankee, per fortuna in senso giusto) dette allo spettacolo “the coup de grâce.” Eppure è probabilmente avvenuto.

Quando era in lavorazione a Hollywood “Il padrino 2,” io fui chiamato da Francis Coppola a controllare che non ci fossero nel film errori d’italiano, soprattutto per la parte che avviene in Sicilia. Mi pagarono l’aereo in prima classe da New York a Los Angeles e ritorno e mi installarono nel famoso Beverly Hills Hotel sul Sunset Boulevard.

La mattina dopo andai nel saloncino dove provavano la pellicola appena montata, e lì c’era il regista Coppola, bravissimo ma che non parlava una parola d’italiano. Giravano i titoli d’apertura. Io vidi subito, nella lista dei protagonisti pseudo-italiani, una “Mama” Santuzza o altro nome che fosse. A voce alta interruppi per dire che in Italiano non si dice “Mama;” ma fui contraddetto e beffeggiato da molti, tra cui lo stesso Coppola. Tutti mi assicuravano che ero io a sbagliare. Io risposi che se dopo aver speso tanto per avere lì un Italiano nato e cresciuto a Roma e che avesse fatto le scuole, avevano scoperto che non sapeva scrivere la parola “mamma,” purtroppo avevano perduto dei bei soldi. L’indomani mattina ritornai a New York.

Protofascisti all'assalto in America

(15 settembre) La rivolta nazionale di stampo razzista che ribolle in America dall’epoca dell’insediamento di un negro alla Casa Bianca è scoppiata oggi in occasione delle elezioni primarie per il rinnovo parziale del congresso e dei seggi dei governatori degli Stati Uniti. Una frotta di ignoti, proiettata sul palcoscenico nazionale dal movimento qualunquista e anarchico di destra del “Tea Party” che si oppone a Obama ha conquistato diverse candidature importanti in vista delle elezioni vere e proprie che si terranno tra meno di due mesi, e il panorama politico americano è d’un tratto trasformato. E’ in gioco la democrazia, e ciò che accadrà, sul medio e lungo termine, è per ora soltanto un penoso interrogativo.

Tipico della banda di insorti improvvisamente sulla scena è il multimilionario italo-americano Carl P. Paladino, un totale inesperto di politica che ha conquistato a nome del partito repubblicano nientedimeno che la candidatura a governatore dello stato di New York. Paladino ha tenuto nella campagna elettorale tenuta a sue spese una serie di discorsi aggressivi e sconclusionati contro l’establishment democratico che da tempo controlla l’assemblea statale e il governatorato nella capitale statale di Albany. Il tono minaccioso dei suoi sproloqui è indicato dallo slogan “arriverò ad Albany con un manganello in mano” lanciato al megafono (più precisamente Paladino ha parlato di “una mazza da baseball,” che è l’arma classica del farabutto americano, ma dato il tono la mia traduzione mi sembra giusta.)

Se Paladino avesse anche chiamato l’assemblea di Albany “aula sorda e grigia” avrebbe anche resuscitato in maniera perfetta il fantasma mussoliniano, ma lui questo probabilmente lo ignora, perchè l’ignoranza, non meno della rozzezza e della sicumera, sono caratteristiche essenziali di molti beceri del “Tea Party”. Basti dire che l’idolo del movimento, e sua leader nazionale non dichiarata, è l’ex nemica di Obama ed ex candidata semianalfabeta alla vice-presidenza Sarah Palin, la quale credeva che l’Africa fosse una nazione e aveva creato la
parola “rifudiare”(“refudiate”) in luogo di rifuggire o ripudiare.

Se Paladino diventerà effettivamente, tra due mesi, governatore di New York è naturalmente da vedere, perchè deve ancora battersi, a novembre, contro il candidato del partito democratico che è l' abbastanza popolare Andrew Cuomo (figlio del vecchio governatore Mario). Tuttavia la vittoria di Paladino nelle primarie repubblicane, con una fortissima maggioranza che nessuno aveva previsto, indica la forza e la pericolosità dell’ intero movimento protofascista anti-Obama. (La presenza di Obama stesso alla Casa Bianca non è naturalmente in questione in queste elezioni per il congresso e i governatorati, ma lo sarà tra poco più di due anni; la candidata alla presidenza, allora, potrà benissimo essere Sarah Palin in persona, a meno che non voglia cedere il campo al suo mentore di due anni fa, il candidato repubblicano alla presidenza John McCain, che è un’altra delle star del “Tea Party.”)

Il “Tea Party,” o “festino del tè” per un richiamo storico alla lite fiscale con gli inglesi e la distruzione delle balle di tè nel porto di Boston che segnarono l’inizio della rivoluzione americana nel 1773, è un movimento emerso intorno alla metà del 2009 per protesta contro gli interventi di stimolo all’economia disposti da Obama. Dal movimento il presidente nero viene accusato di occupare abusivamente la Casa Bianca, di criptocomunismo e spesso addirittura paragonato a Stalin e Hitler. E’ un’accozzaglia di libertari, membri del vecchio movimento evangelico che mandò alla Casa Bianca G. W. Bush, difensori della libertà di portare armi, anarchici di sinistra e soprattutto di destra, crociati anti-tasse, mistici e oppositori di ogni intervento di governo; ha un solo comune denominatore, l’odio per Obama. Alcuni dei suoi motivi polemici sono legittimi, ma quello che domina sono la reazione razzista e l’ignoranza. Nella maggioranza è diffusa la convinzione che Obama non sia americano e sia nascostamente mussulmano.

Quale sarà il peso effettivo del “Tea Party” nelle elezioni parziali di novembre, in cui per il partito democratico di Obama sono previste comunque grosse perdite dovute soprattutto alla crisi economica e alle guerre, non è possibile sapere; da una parte il movimento, che è diffuso in grandissima maggioranza nelle file repubblicane, rafforzerà i candidati repubblicani; dall’altra, per il suo ovvio estremismo e protofascismo, potrà dividerli.

E’ quanto avvenne nel 1964, quando la candidatura alla presidenza del carismatico repubblicano moderato Barry Goldwater, detto “Mr. Conservative,” fu compromessa dall’esistenza della libertaria, razzista e fanatica “John Birch Society;” l’avversione di molti repubblicani per questo movimento di frangia divise il partito e facilitò la riconferma del democratico Lyndon Johnson alla Casa Bianca. Però la storia non si ripete mai in modo proprio uguale due volte.

Questi stessi discorsi valgono anche, per ora, per quanto riguarda la riconferma di Obama nel 2012.

Ma quello che soprattutto colpisce è come un movimento così primitivo e grossolano
come il "Tea Party" abbia potuto affermarsi tanto prepotentemente negli Stati Uniti. Sembra un altro sintomo del generale degrado, soprattutto intellettuale, di questo grande Paese, incominciato con le guerre mediorientali di G. W. Bush. Churchill disse che “Dio aiuta gli ubriachi, i bambini e gli Americani,” e parecchie volte nella storia l’America ha avuto di questi profondi rovesci, che poi la sua poderosa democrazia ha sempre capovolto. L’elezione di Obama era stato proprio uno di questi trionfi della democrazia. Ma stavolta quello che sembra veramente a rischio non è solo il quadro politico, ma l’anima del Paese.

Il piano di Obama per il Medio Oriente

(14 settembre) Il meccanismo ideato da Barack Obama con l’accoppiamento diretto, o “link,” tra i negoziati per la pace in Palestina e la fine “simbolica” della guerra americana in Iraq (vedi piu' in basso il precedente articolo, “Obama: meglio tardi che mai”) è molto più dinamico e promettente di quello che può apparire a prima vista.

Non c’è dubbio che il round in corso di negoziati per la Palestina, dopo sessant’anni di fallimenti, ha una probabilità minuscola, per non dire microscopica, di concludersi positivamente, e nessuno s’illude del contrario. Non c’è nemmeno dubbio che la fine “simbolica” della guerra americana in Iraq – costituita dal ritiro immediato e già incominciato di quasi due terzi delle truppe americane, mentre il restante terzo dovrebbe astenersi da operazioni offensiva e solo aiutare in varie maniere le forze iraqene addestrate negli scorsi mesi e il governo irakeno –abbia una probabilità ancora più infima di evitare all’America una disfatta meno umiliante di quella del Vietnam. Neppure su questo punto Obama e i suoi si illudono.

Ma l’accoppiamento tra le due questioni permette di sperare in maggiori possibilità di successo sia per l’una che per l’altra. Se il negoziato israelo-palestinese segnasse qualche progresso verso la desiderata soluzione – due stati indipendenti e pacifici sulla terra palestinese – o addirittura arrivasse al successo, questo si rifletterebbe istantaneamente in un miglioramento dell’umore generale del mondo islamico nei confronti dell’occidente, e questo miglioramento, a sua volta, faciliterebbe il raggiungimento dell’obbiettivo in Iraq: un paese relativamente stabile, e lo sganciamento definitivo delle forze americane per l’agosto 2011 che Obama ha comunque già promesso agli Stati Uniti.

A sua volta l’eventuale stabilizzazione dell’Iraq darebbe agli Stati Uniti un prestigio e una forza concreta nuove, che aumenterebbero la loro influenza anche sull’ arbitrato Israelo-Palestinese.

Il risvolto opposto di questo scenario indubbiamente ultra-ottimistico non avrebbe effetti negativi apprezzabili. Per la semplice ragione che le cose in tutti e due i settori, Palestina e Iraq, vanno già talmente male, che peggio difficilmente potrebbero andare. Nuovi fallimenti raggiungerebbero anzi punti critici, che imporrebbero, per forza di cose, soluzioni radicalmente nuove. Il naufragio stesso dei tentativi fatti in precedenza varrebbe a giustificare altri tentativi radicali.

Gli sviluppi effettivi che si profilano sull’orizzonte, nella visione del tutto realistica di Obama, sono due: insuccesso del negoziato per la Palestina, dato che il lato isrealiano, che da dieci anni, dominato dalle forze interne estremiste, non ha mai dimostrato, nonostante gli attuali atteggiamenti concilianti di Bibi Netanyahu, alcun interesse a una soluzione (una circostanza di cui gli Stati Uniti e l’opinione pubblica americana cominciano gradualmente a convincersi: "Perchè gli Ebrei non sono interessati alla pace" è il titolo di copertina di uno degli ultimi numeri di "Time"); e lo sfascio generale dell’Iraq dopo il ritiro totale degli occidentali.

Ma dato pure che questi due crolli si verifichino effettivamente, gli Stati Uniti uscirebbero dalle macerie largamente rafforzati.

Dall’Iraq, dopo l’immenso sforzo fatto per salvare l’unità del paese, si tirerebbero fuori comunque alla data prevista e a fronte alta, per andare a concentrare ogni loro mezzo su un altro quadrante di guerra, quello dell’Afganistan, o più precisamente della regione afgano-pakistana o Afpak, non lontana dagli arsenali atomici pakistani e dove è rifugiata Al Qaeda: questo è il versante che in realtà preme a Obama e che veramente, anzi clamorosamente, investe gli interessi nazionali occidentali.

Una volta fuori della mischia, gli Stati Uniti sarebbero pienamente liberi di spingere per soluzioni pragmatiche anche in Iraq: il distacco del Curdistan dalla nazione, per esempio; una divisione del rimanente, per quanto difficile, tra sciiti e sunniti, se non riescono a trovare un accordo (del resto questa è la soluzione secessionista sempre ritenuta inevitabile e favorita dal vice-presidente Biden).

Di fronte a Israele e ai Palestinesi, gli americani, che una volta tanto, avendo riconosciuto il “link” tra il conflitto tra i due avversari e il conflitto tra l’Islam e l’occidente, hanno evidenziato come il secondo giustifichi pienamente l’intervento americano nel primo, potranno, pure per la prima volta, prendere una posizione arbitrale veramente quidistante tra le due parti ed esercitarla con forza.

Con questo passeranno finalmente dalla parte del torto, occupata finora con il sostegno automatico d'Israele dovuto alla spinta interna della lobby israelo-americana, a quella della ragione e dell'onesto arbitrato. In questo quadro potranno essere prospettare, o addirittura imposte, nuove strade verso una soluzione. Per esempio con la chiamata dell’ Hamas, vera legale rappresentante del popolo palestinese, a partecipare alle trattative.

D’altra parte non esiste neanche, in astratto, solo la soluzione bi-statale per una sistemazione della Palestina: per esempio esiste, per quanto sgradita a Israele, la soluzione bi-nazionale, cioè di un unico stato laico, e non teocratico come quello installato dagli Ebrei in seno all’Islam, che accolga sia il popolo ebraico che quello palestinese. Ed esiste anche la soluzione giordana, se la dinastia hashemita che controlla Amman si risolvesse a dividere il potere con i palestinesi in cambio del recupero del territorio transgiordano e dell’acquisto di Gaza, che per la prima darebbe a questo stato uno sbocco sul mare.

Qualcuno ha detto che una quadratura del circolo palestinese è impossibile perchè essa implica due “piccole guerre civili,” una negli Stati Uniti, tra il governo di Obama e l’elemento israelo-americano che appoggia l’estremismo ebraico, l’altra a Gerusalemme, tra l’elemento moderato ebraico di maggioranza, e quello ultra-ortodosso. Ma anche qui la situazione sta lentamente cambiando per tutti e due i Paesi, come diremo in un altro articolo.

Cinesi a Prato e a New York

(13 settembre) Il dramma di Prato che si sta trasformando in città cinese è arrivato sul New York Times. Il giornale gli dà un grandissimo risalto, l’articolo incomincia in prima pagina e prosegue all’interno su una pagina intera, con foto e carte geografiche. Il tono è desolato, la corrispondente, Rachel Donadio, riferisce gli aspetti più squallidi dell’immigrazione cinese legale e illegale, il cozzo quasi inimmaginabile con l’ambiente della vecchia città toscana, le previsioni apocalittiche come quella offerta dal direttore delle attività culturali della provincia di Prato Edoardo Nesi: “Questo potrebbe diventare il futuro di tutta l’Italia.”

Gli americani sono diventati estremamente sensibili al problema dell’immigrazione illegale di massa, perchè è un problema anche loro, in dimensioni anche più vaste, soprattutto per le correnti provenienti dal Messico e dai paesi sudamericani, ma anche dalla Cina. A New York e in altre città americane ci sono vaste Chinatown che sono qui da generazioni, ma adesso i vecchi immigranti chiamano amici e parenti che arrivano come turisti e poi rimangono come clandestini. Molti, come in Italia, sono aiutati da mafie internazionali che li provvedono di carte false. Chi adesso passa per certe parti di Brooklyn o Queens, due dei cinque quartieri di New York, sente parlare solo cinese o russo. Se interpelli questa gente in inglese non sa rispondere e scappa. Non c’é dubbio che siano in massima parte clandestini.

Il flusso degli illegali cinesi è una delle molte serie ragioni di attrito tra Washington e Beijing. I riflessi economici disastrosi per l’America in termini di concorrenza commerciale sleale e sottrazione di posti di lavoro, nell’attuale deprimente situazione economica, sono ovvi, ma forse il contrasto più grave è quello che deriva dalla deliberata politica del governo cinese di tenere artificialmente basso il valore della moneta nazionale, per sussidiare segretamente le esportazioni e aumentare il divario con il disavanzo commerciale degli Stati Uniti. Washington potrebbe rispondere con ritorsioni doganali ma trema all’idea che la Cina si vendichi arrestando gli acquisti di buoni del tesoro USA che finora hanno consentito di tenere a galla l’economia americana nonostante gli immensi deficit generati dalle guerre di George W. Bush.

Per Prato e l’Italia il New York Times non ha soluzioni da suggerire. Evidentemente l’Italia non ha da temere le ritorsioni monetarie cinesi, però ha forse da temerne altre di natura più sanguinosa, data la parte che la mafia cinese e quella italiana, nonchè i trafficanti internazionali di droga e di vittime umane, hanno notoriamente nel fenomeno dell’ immigrazione illegale.

I barboncini di Bush

(12 settembre) E’ da poco arrivato a New York il libro di memorie di Tony Blair e parecchia gente lo compra. Quando hanno chiesto a un tale perchè lo facesse, ha risposto: “Per vedere se spiega come abbia potuto fare una cosa idiota come l’invasione dell’Iraq.” Altri hanno dato una risposta simile.

Blair non è molto stimato in America, dove dal tempo del suo concorso all’invasione americana dell’Iraq viene spesso ricordato come “Bush’s poodle”, il “barboncino di Bush”. (Quanto a Bush stesso – il figlio, ovviamente – è aspettativa comune che gli storici lo collocheranno nel punto più profondo della graduatoria dei presidenti dal tempo di George Washington).

Veramente l’appellativo di barboncino spetta per la stessa ragione anche ad un’altro uomo di governo, Silvio Berlusconi, unico altro statista europeo occidentale a schierarsi fin dall’inizio con Bush e a coonestare la sua demenziale avventura bellica. Ciò che salva Berlusconi in America da qualsiasi soprannome è solamente il fatto che qui nessuno ne parla o lo conosce o lo prende o lo ha mai preso sul serio; anzi nessuno prende sul serio l’Italia da molti anni.

Quando Berlusconi si mise al fianco o piuttosto dietro a Blair che si era a sua volta messo dietro a Bush, mentre persone serie come il presidente francese e il cancelliere tedesco avevano annunciato il loro dissenso, il sottoscritto, che da qualche anno non scriveva più per i giornali italiani ma solo per pubblicazioni americane o libri, si precipitò in Italia per vedere se con le sue umili forze, e presso i pochi che ancora ricordavano il suo nome soprattutto da quando lavorava in America per Indro Montanelli, riuscisse in qualche modo a creare un moto di opposizione contro un passo che l’Italia, l’America, la Gran Bretagna e insomma l’occidente avrebbero pagato molto caro. Fu un fallimento totale.

L’ambiente intellettuale e politico a Roma ma anche in città meno addormentate come Milano e Torino si rivelò assolutamente ignaro delle ragioni che avevano motivato Bush, visto che la stampa, la televisione, i politici non gli avevano mai spiegato nulla (dato e non concesso che ne avessero capito qualcosa essi stessi). Uomini della levatura del mio amico Carlo Fruttero, famoso collaboratore del mio fratello scrittore Franco Lucentini, respinsero increduli i miei tentativi di chiarificazione – in particolare, come i ‘ neocon’ israeliano-americani avessero infinocchiato Bush, e come questi fosse scivolato verso la sua criminale impresa. (Principalmente per megalomania – glielo aveva ispirato Nostro Signore – ma in fondo per dimostrarsi più grande di suo padre, che aveva già bastonato Saddam Hussein, ma non abbastanza).

L’unica cosa che io riuscii a fare fu di pubblicare, insieme con Mario Segni, un appello agli Italiani sul giornale ‘La Stampa,’ che pochi lessero e ancor meno ascoltarono. Poi nè ‘La Stampa’ nè Segni nè altri vollero fare altro – l’affronto ai ‘neocon’ israeliti, in Italia come altrove, organizzati nelle loro influenti organizzazioni di propaganda, era troppo rischioso, anche se gli ebrei che la pensavano in senso opposto erano infinitamente più numerosi. Io me ne rivenni scornato a New York.

Tornando al libro di Blair, hanno particolarmente colpito i passaggi in cui l’ex premier inglese piange per il cattivo esito dell’invasione dell’Iraq e per “l’incubo che ne è derivato”; trova anche modo di dire che “anche lui ha un cuore” e che gli è tanto dispiaciuto per i morti e feriti. Però non dice una parola per scusarsi e nemmeno spiega, a parte il proclamarsi molto religioso proprio come Bush, perchè abbia preso una cantonata così gigantesca. Il New York Times ha ricevuto “on line” 296 lettere di gente che ha letto il libro, per il 96 per cento furiose. Tipica quella di un newyorkese che chiama Blair “viscido” e dichiara: “Il coinvolgimento della Gran Bretagna in Iraq è uno scandalo colossale, e non ha avuto altro effetto che di aumentare l’esposizione del paese al pericolo del terrorismo, come si è già visto.”

A quando le memorie di Berlusconi?

Obama, meglio tardi che mai

(11 settembre) – Quasi nessuno – e certamente nessun giornale italiano – ha avuto finora l’intelligenza o il coraggio di notare qualche cosa di straordinariamente nuovo e importante in occasione del negoziato attualmente in corso tra gli israeliani e i palestinesi per la conclusione di un conflitto che dura da mezzo secolo. La novità è che per la prima volta nella storia contemporanea, un presidente americano, Barack Obama, ha voluto mettere in piena luce l’esistenza di un legame diretto, un link come si dice in diplomazia, tra quel conflitto e le guerre che invischiano l’America in Medio Oriente e hanno contribuito al baratro economico che si è aperto sotto i piedi dell’occidente.

Finora questo legame era stato sempre taciuto semplicemente perchè il presidente americano o chiunque altro lo avesse menzionato, avrebbe ipso facto sollevato una terribile questione. Se le guerre in Medio Oriente sono una conseguenza del conflitto palestinese, e dato che quest’ultimo concerne esclusivamente Israele e i palestinesi, perchè il governo americano, e dietro a questo un pugno di sciagurati governi leccapiedi occidentali tra cui quello italiano, si sono dovuti andare a impelagare in Medio Oriente in guerre che ne sono la diretta conseguenza?

Perchè, in altre parole, i governi occidentali hanno dovuto compromettere i loro interessi a vantaggio di un altro governo, quello d’Israele, che ha interessi totalmente diversi, che ha sempre dimostrato di essere capacissimo di difendersi da solo, che è l’unico a essersi munito della bomba atomica nella regione mediorientale, e che, cosa che è forse la più grave di tutte, è chiaramente sospettabile di essere il vero ostacolo alla conclusione del conflitto con i palestinesi? Interrogativo tanto semplice quanto agghiacciante. Ma chi lo avesse sollevato sarebbe stato, innanzitutto, accusato di antisemitismo, un’accusa che, da oltre mezzo secolo inorridisce uomini e gruppi politici politici di buona parte del mondo anche quando è totalmente falsa, e che solo adesso, per fortuna, sta lentamente perdendo la sua forza dirompente.

In particolare, una circostanza indubbiamente mostruosa in cui il link, anche se saltava agli occhi, è stato accuratamente ignorato, e che, sconvolgendo la psiche americana, è anche all’origine delle guerre americane in Medio Oriente è l’abbattimento delle torri gemelle del World Trade Center. Tutto è stato detto in America a proposito di questo spaventoso atto: era perchè gli arabi invidiano la democrazia americana; era perchè sono congenitamente assassini; era perchè sono dementi; era perchè sono vigliacchi (anche quando vanno deliberatamente incontro alla morte) eccetera eccetera. Ma guai a dire che era perchè volevano punire gli americani e l’occidente per il loro sostegno a Israele nel conflitto con i palestinesi. L'idea era talmente tabù che quando un principe saudita donò 10milioni di dollari alla citta' di New York da usarsi per la ricostruzione delle Torri, l'allora sindaco Giuliani glieli rimandò indietro perchè erano accompagnati da una lettera esortante l'America a prendere un atteggiamento imparziale in Medio Oriente.

Obama, finalmente, annunciando il nuovo round di negoziati ha riconosciuto l’esistenza del link, evidenziandolo in più maniere ossia: annunciando il nuovo negoziato e parlando a lungo della disperata necessità di portarlo a termine con successo; annunciando, contestualmente, un altro evento clamoroso, la fine perlomeno “simbolica” delle operazioni di combattimento occidentali in Iraq; facendo sì che questa fine e il relativo inizio del ritiro delle truppe avvenissero addirittura lo stesso giorno della prima, formale seduta del negoziato israelo-palestinese; e infine inscenando il tutto nell’imminenza della più amara e sofferta di tutte le ricorrenze americane, il crollo delle torri in un indimenticabile Undici Settembre di nove anni fa.

Il gesto senza precedenti di Obama ha non solo il significato di avvertire che, d’ora in avanti, la necessità di chiudere un conflitto interminabile all’origine della colossale catastrofi sarà messa sempre in primo piano; ma anche di avvertire il governo d’Israele che è finito il tempo in cui Washington si piazzava automaticamente dalla sua parte, e che l’America potrà mettere in opera tutti i suoi sforzi per spingere non solo i palestinesi ma anche gli israeliani a concludere la pace. Questi ultimi potranno anche essere chiamati a rendere ragione quando sia chiaro che il principale ostacolo sono loro e non, come si è sempre capziosamente sostenuto in passato, i loro avversari.

Questo avvertimento, di cui i giornali non parlano per non passare da antisemiti o perchè condizionati dalla pubblicità di origine israelita o da altri controlli finanziari israeliti, é certamente giunto chiarissimo agli Israeliani di Gerusalemme, che hanno sempre temuto che Obama (chiamato poco dopo la sua elezione “il nostro probabile nemico” dalla rivista ‘neocon’ cioè neo-conservatrice ebraica Commentary) avrebbe fatto una mossa di questo tipo. Un effetto pratico sorprendente è stata l’improvvisa metamorfosi da falco in colomba del primo ministro israeliano Bibi Netanyahu, che si è mostrato all’inizio del negoziato pieno di buona volontà e di spirito di conciliazione. Se si tratti di un cambiamento reale o di una tattica si capirà in seguito. Qualcuno ha persino ipotizzato che sia un espediente di Bibi per allontanare da sè il sospetto che egli prepari, come sta forse facendo, un attacco aereo degli impianti atomici dell’Iran, unica cosa che Israele veramente teme. Chi vivrà vedrà. Il negoziato potrebbe durare un anno.