Viale del tramonto

(27 ottobre) Il cinema – soprattutto quello di Hollywood – influisce sul costume, o è il costume che influisce sul cinema? O il processo è circolare, nel senso che i due si influenzano a vicenda?

In attesa di una risposta, mi sono accorto che sia il cinema che il costume procedono veramente a ondate, anche se spesso uno nemmeno se ne accorge. Per esempio, agli esordi e poi fino ai tardi anni Trenta trionfavano film imperniati sui personaggi “fini,” “sensibili”, sia femminili (per fare degli esempi, Lillian Gish in tempi antichi, più recentemente Ingrid Bergman) che maschili (tipo prima Richard Barthelmess, poi Paul Henreid o il grande Leslie Howard, che tutti credevano tipicamente inglese, invece era polacco); e sui loro personali calvari. Spesso, gli stessi titoli rendevano in partenza l’idea (“Fiori infranti” ).

Adesso, i fiori sono sempre infranti nella realtà, ma nel cinema e anche nella narrativa e nel costume, chi se ne interessa più? Chi parla più degli uomini e delle donne “sensibili”? Casomai, interessano i caratteri duri. Perfino certe parole stanno uscendo dall’uso. Come avviene anche in Italia: “è molto fine,” si diceva una volta per dire una persona raffinata. Adesso “fine” non si dice più, o solo per ironia, o solo al livello di portierato.

Dopo quella mania ne arrivò, negli ultimi anni Trenta e primi anni Quaranta, un’altra di forza anche molto maggiore, uno tsunami più che semplice ondata: quella delle afflizioni psichiatriche. In tutte le versioni, dalla “Psycho” o psicosi vera e propria (Hitchcock ci fece, sul tema, non meno di quattro film) alla personalità multipla, alla supercriminalità demenziale, alla paranoia, all’amnesia totale con ricadute romantiche, e poi alla psicanalisi in tutte le sue varianti, Freud, Jung, Adler.

Le persone bene, soprattutto in America, avevano, una su due, lo psicanalista, i bambini cominciavano a scuola con lo psichiatra. Poi, tutto d’un tratto, la mania è passata totalmente e non è mai più, o perlomeno non ancora, tornata. Giorni fa ho riguardato una pellicola del 1947 intitolata “Possessed” (“L’ossessa” o “Gli Ossessi,” il titolo di Dostoievski). Si era a quell’epoca all’apice dello tsunami. Ma il film era un prodigioso pastrocchio, nonostante il meraviglioso cast con Joan Crawford, Raymond Massey e Van Heflin, ed è rapidamente uscito dalla comune. Magari può essere stato proprio quello che ha indotto la gente a intravedere l’assurdità dell’intera voga, e a farla, nel giro di una ventina d’anni, scomparire.

E adesso? In mezzo a quale ondata siamo? Io non vedo o sento altro che film su puerili storie fantastiche con calci in bocca, o sulle parti basse, e grandi scopate; un appetito per la favola scema, la violenza e il sesso che mi pare più che altro uno sforzo per staccarsi dal presente, e che si inquadra benissimo nel declino cerebrale che è a sua volta un aspetto della deriva verso cui sta purtroppo andando questo grande Paese, e dietro a lui, ovviamente, Paesi già in partenza più rimbambiti e più arretrati come l’Italia.

Di questo lagrimevole moto discendente fanno parte tante altre cose, ma la più grave, con cui concludo, è la scomparsa della musica, perchè non voglio intendere questa parola i rumori e singhiozzi con accompagnamento di parolacce, che si sentono normalmente alla radio o televisione o nei cosiddetti "concerts".

Io parlo della musica seria, il cui uditorio, in tutta l’America, è diminuito per lo meno dell’80 per cento rispetto a tempi che pure erano finanziariamente molto più magri, come i primi decenni del dopoguerra. La vendita dei dischi di musica classica è precipitata a poco più di zero. A Manhattan c’erano fino a pochi anni fa due stazioni radio che trasmettevano musica classica 24 ore su 24. Una decina d’anni fa, le stazioni sono diventate una. Poi questa si è salvata dalla bancarotta vendendosi a terzi, i quali tuttavia l’hanno ridotta al lumicino sia come orario che come personale e raggio di diffusione. Adesso chiede disperatamente soccorso al pubblico per non dover chiudere anche lei.
7:52 AM

Al di qua (1)

(23 ottobre) Qualche giorno fa Woody Allen ha compresso con mirabile economia l’intera sua visione del mondo in queste parole: “What you see is what you get,” cioè quello che vedete è tutto quello che c’è. Poi ha detto che quanti credono che ci sia qualcosa d’altro, come per esempio ciò che viene offerto dalle religioni, sono fortunati perchè in genere trovano in ciò qualche conforto; ma lui non è uno di questi.

Io gli ho chiesto di elaborare un po’ questi concetti ma lui non ha voluto farlo. Allora cercherò di farlo io, per la semplice ragione che la sua proposizione principale mi trova consenziente al cento per cento. Non sono invece precisamente d’accordo sull’idea che le religioni rappresentino necessariamente un conforto, e partirò da questa divergenza per aggiungere qualche parola.

Innanzitutto, c’è una quantità tale di cose da vedere intorno a noi, che non capisco perchè si debba andarne a cercare dell’altra. Ma se ne vogliamo ancora, basta alzare gli occhi al cielo e pensare agli elementi più rudimentali dell’astronomia per essere, nel contempo, sopraffatti da un senso di meraviglia e stupore. Poi c’è moltissima roba che non vediamo, ma sappiamo che esiste; e anche questa ci offre un vasto campo su cui esercitare profittevolmente il pensiero.

E’ ben vero che anche delle cose che vediamo, o che supponiamo ci siano, non comprendiamo in fondo assolutamente nulla. Questa, anzi, è l’unica ragione per cui abbiamo il diritto di accettare le fantasie religiose: le une in certo senso valgono le altre (mi pare che il primo a sostenere questa equivalenza fu Sant’Agostino).

Purtroppo, però, le idee consolatorie derivanti dalle religioni sono in genere molto insipide. Di tutte le religioni che io conosco, forse la consolazione più concreta è quella maschilista proposta dalla religione mussulmana, le giovani urì che ci diletteranno in paradiso; ed è tutto dire. Il paradiso offerto dalla religione cristiana è di una vacuità e di una noia senza pari. Non un solo verso di Dante quando descrive l’empireo è passato alla storia. Le religioni orientali ci offrono di svincolarci finalmente dall’esistenza dopo un vasto numero di reincarnazioni; ma il conforto successivo non è chiaro. La religione ebraica, perlomeno, ha il buon senso di non assicurare nessun paradiso.

D’altra parte, provate voi stessi ad evocare delle consolazioni ultraterrene migliori, e troverete difficile anche immaginarle; a meno che non non siano quelle stesse che sperimentiamo nella vita, ciò che rappresenterebbe una contraddizione in termini. Ma se le trovate, fatemele conoscere.

Io sospetto però che la religione abbia anche un lato intrinsecamente negativo. A forza di ricorrere ad essa, a forza cioè di dirottare verso di essa una parte dei nostri pensieri, diminuiamo la quantità di attenzione che invece dovremmo rivolgere alle cose che ci circondano, sia che crediamo di capirle, sia che no; e penso che se in luogo delle pratiche religiose si organizzassero sforzi deliberati, individuali o collettivi, di apprezzamento della vita, questo finirebbe coll’avere un effetto consolatorio non minore delle astrazioni mistiche.

Una conseguenza dell’idea “what you see is what you get” è, d’altra parte, l’accento che essa mette sul fatto che sia noi, che tutto quello che ci circonda, siamo parte della natura. Questo a sua volta può condurci a qualche ipotesi interessante sulla nostra funzione nel mondo, e sulla differenza che esiste tra noi viventi e ciò che non vive. Se mi sentirò di farlo ne parlerò un’altra volta.

Bagatelle per un massacro

I commentatori e i conduttori di poll impegnati nel prologo alle elezioni americane di medio termine hanno fatto una grandissima scoperta: c’è la guerra. Anzi una guerra doppia, tripla, che va avanti da nove anni, di cui non si vede minimamente la fine, che ha fatto finora quasi cinquemila morti più trentamila mutilati e feriti solo da parte americana, forse un milione e più di morti e feriti altrove, più lo sperpero di qualche trilione di dollari, più il collasso dell’economia occidentale: ma pochi o nessuno sembrano ricordarsene tra quelli che si preparano a votare. Pochissimi, poi, la pongono come una ragione eminente di preoccupazione. Chissà come mai?

Osserva, per fare un esempio Tom Brokaw, corrispondente speciale del giornale televisivo della NBC, che l’apparizione nella contesa elettorale del populista Partito del Tè è oggetto di grandissime discussioni e commenti; invece di questo stillicidio di morte e distruzione non si sente quasi parlare; nè tra gli elettori, nè tra i non elettori, nè tra gli occupati, nè tra i disoccupati, nè tra i risparmiatori, nè tra i consumatori, insomma da quasi nessuna parte. “E’ possibile che nessuno si accorga che dal panorama manca qualcosa? … E perchè mai queste guerre, e le loro conseguenze umane ed economiche, non sono in primo piano, al centro, di questa campagna elettorale?” Si chiede Brokaw.
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Qualcuno, di tanto in tanto, incluso chi scrive e incluso uno degli stessi protagonisti principali come il presidente Obama, ha individuato e occasionalmente indicato durante tutto questo tempo la causa più chiara di questo letale fenomeno collettivo. E’ il fatto che nella nazione più profondamente responsabile e più abituata e attrezzata a fare grande rumore sulle sue vicende interne, cioè da parte americana, la gente se ne infischia, e se ne infischia, perchè solamente un uno per cento – i soldati dell’esercito volonario e le loro famiglie – è direttamente coinvolto. Per di più, questo un per cento è pagato; dunque, fatti suoi. I morti? Sono, nell’immensa maggioranza, figli altrui. E quando si sono andati ad arruolare sapevano bene che erano pagati o per uccidere o per essere uccisi.

Però c’è anche un’altra ragione di silenzio che viene menzionata ancora meno, neppure dal pur coraggioso presidente Obama, neppure dai giornali, perlomeno quelli d’America e delle altre nazioni occidentali. Essa è connessa alla causa originaria di quest'epopea di strage, ed è una causa, che, pure, fu messa in colossale evidenza dalla più mostruosa catastrofe mai subìta da una nazione “avanzata” come gli Stati Uniti. Volete un indizio per risolvere questo permanente indovinello? Cercò all’epoca della catastrofe di provvederlo al pubblico americano un signore plurimiliardario che proprio in questi giorni è riapparso sulla scena in seguito a certi suoi investimenti sul mercato azionario di New York. Si tratta del principe Walid bin Tal, della famiglia regnante in Arabia Saudita, una figura molto criticata nel suo Paese per via del suo accentuato filo-americanismo, e molto criticata in America per il suo accentuato filo-islamismo (questa doppia qualifica sembrerebbe di per sè indicativa di una qualche imparzialità).

Il principe Walid, quando crollarono i due grattacieli del World Trade Center, spedì a Rudolph Giuliani, sindaco della città in cui vive il più vasto aggregato ebraico del mondo, superiore anche a quello di qualsiasi città israeliana, così vasto e predominante che un giornale svedese la ribattezzò una volta Jew York, un assegno di 10 milioni di dollari da impiegare per l’assistenza alle famiglie delle migliaia di vittime. Insieme c’era un biglietto che diceva: “Gli Stati Uniti dovrebbero però anche riesaminare le loro direttive politiche nel Medio Oriente ed assumere una posizione più equilibrata nei confronti della causa palestinese.” Il sindaco Giuliani nel ricevere questa comunicazione si dichiarò supremamente oltraggiato da questa intrusione sia pure verbale nella politica estera americana, e per seppellire il tutto sotto il più sdegnato oblìo restituì anche al mittente il regalo di dieci milioni. Serve a voi questo episodio di nove anni fa come indizio alla soluzione del summenzionato enigma?

Uno sguardo circospetto al Medio Oriente

(16 ottobre) In un tentativo di fare il punto della situazione mediorientale, chi scrive è colpito dall’aggravamento di alcuni motivi di ingovernabilità da tempo avvertibili nella società israeliana, aggravamento che arriva oggi ad infirmare persino importanti manifestazioni esterne di quello Stato. Un esempio è il discorso, aggressivo e sconnnesso, presentato alla riapertura annua dell’Assemblea generale dell’ONU dal ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman per indicare nelle grandi linee, com’è di prammatica, gli indirizzi politici della sua nazione, e che è stato ripudiato ufficialmente, come privo di qualsiasi rappresentatività dei programmi politici nazionali israeliani, a poche ore di distanza dal premier dello stesso governo, Benjamin Netanyahu. Un simile caso di politica schizoide non si era mai registrato all’ONU.

Netanyahu, che era contemporaneamente impegnato in uno dei momenti più critici dell’azione diplomatica che Israele non ha mai cessato di svolgere per cementare le sue istanze di sopravvivenza, ha peraltro esibito lui stesso gli effetti di una disfunzione congenita del suo governo.

Si trattava della ennesima tornata dell’intermittente, ormai quasi ventennale “processo di pace” con rappresentanti più o meno autorizzati della popolazione araba, per una sistemazione bi-statale del territorio palestinese, una tornata assecondata però questa volta con tutto il suo possibile potenziale politico anche dall’amministrazione americana del presidente Obama. La soluzione bi-statale è stata solo recentemente accettata in principio da Netanyahu e dal suo governo di coalizione, del quale tuttavia fanno parte le fazioni ultra-religiose e il movimento russo-ebraico di Lieberman.

Semplicemente per poter continuare il dialogo, Netanyahu ha fatto al suo interlocutore
la strana richiesta di riconoscere formalmente e in via pregiudiziale allo stato d’Israele il carattere di “stato ebraico”. Richiesta difficilmente comprensibile, ma non a chi conosca il significato e il peso che ad essa viene annessa dalla componente estremistica su cui si regge il governo Netanyahu.

Per questa, il riconoscimento ufficiale di un carattere teocratico ed etnico del governo israeliano dovrebbe essere, sui tempi medi, la leva con cui forzare la popolazione araba della Palestina, inclusa la minoranza che già fa parte della popolazione d’Israele (nella misura del 20 per cento), ad accettare uno status di second’ordine che per il momento non viene specificato. Esso è tuttavia facilmente intuibile per via di comparazione con quello assegnato alla popolazione di Gaza.

Si tratta di uno del capisaldi del movimento per uno stato autoritario d’ispirazione post-sovietica ‘Yisraeli Beiteinu’ (‘Israele è casa nostra’) di Lieberman, che, in alleanza ufficiale con gruppi minoritari ultra-religiosi e “de facto” con il gruppo anarcoide e potenzialmente insurrezionale dei 300.000 coloni occupanti illegalmente la zona transgiordana della Palestina, costituisce una delle colonne portanti del governo Netanyahu.

Successivamente l’ambasciatore d’Israele a Washington ha cercato di chiarire, in un articolo di giornale, la natura di questa richiesta al popolo palestinese, giustificandola come una carota che la componente neo-moderata del suo governo non potrebbe fare a meno di porgere alla componente estremistica di Lieberman per poter avanzare nel negoziato. L’idea che una simile proposta di auto-castrazione, che richiama in certo modo alla mente la disperata offerta di “bantustan” pseudo-indipendenti fatta alla popolazione negra nell’ultima fase del regime di apartheid in Sud Africa, possa essere accettata dai palestinesi, e sia pure dal loro rappresentante più mite e disposto alla collaborazione, il presidente "de facto” Abu Mazen, sembra avere le stesse possibilità di successo che ebbe a suo tempo quella messa sul tavolo dai coloni bianchi sudafricani.

Se anche questa tornata negoziale è destinata a fallire, la situazione che sembra delinearsi per la Palestina è di due aggregati umani ugualmente dissociati nel loro interno, in una strana simmetria il cui significato antropologico e politico per il momento sfugge.

Da una parte c'è un popolo ebraico sostanzialmente diviso in due tronconi, uno moderato e presumibilmente animato da intenzioni di convivenza pacifica con gli arabi, l’altro, predominante, deciso ad imporre a tutti i costi una signoria teocratica sull’intero territorio biblico quale precedeva la seconda distruzione del Tempio. Di fronte a questi due tronconi c’è un popolo palestinese ugualmente diviso in due: il gruppo minoritario che finora ha favorito una trattativa con gli ebrei, illegalmente rappresentato sulla sponda del Giordano da un uomo che porta abusivamente il titolo di presidente; l’altro, di base a Gaza, legittimamente rappresentato e controllato da un movimento di resistenza massimalista che finora non ha mai voluto rinunciare, almeno in linea di principio, all’obbiettivo di espellere totalmente gli ebrei.

Attorno a queste società tronche volteggia in questo momento l’individuo che si è collocato alla testa del movimento di Jihad in difesa dell’Islam, nel quadro della crociata anti-islamica sferrata dall’occidente le cui origini risalgono nella maniera più chiara al conflitto palestinese. E' il presidente dell”Iran Ahmadinegiad. E’ anche l’uomo che ha inserito nell’equazione l'incognita atomica, di conserva con Israele e con il Pakistan. In nome proprio, e in esplicita rappresentanza della nazione araba, la Siria, con cui il suo Paese ha un accordo di azione, Ahmadinegiad sta visitando ufficialmente in Libano la zona calda del confine con Israele. Nello stesso Libano, il movimento Hezbollah, finanziato e armato dall’Iran e Siria, si sta alacremente riorganizzando e riarmando dopo il confronto con Israele del 2006. Esso dispone attualmente, secondo informazioni americane, di 40.000 missili in luogo dei 14.000 posseduti quattro anni fa.

E’ molto difficile immaginare che cosa presagisca questa situazione, all’interno dell’immenso arco di instabilità che va dalla Somalia al Pakistan e in vista delle guerre che già impegnano l’America e l’occidente in Afganistan, in Iraq e in Pakistan. Ma perlomeno a chi scrive, essa non ispira pensieri particolarmente lieti.

Il New York Times e la crociata anti-Islam

(10 ottobre) Un paio di giorni fa un noto columnist newyorkese, Bob Herbert, si è aggiunto a un crescente coro di gente che si sta accorgendo del multiforme declino della società americana, e, prendendo spunto dal fatto che le autorità statali hanno rinunciato a costruire un tunnel ferroviario al di sotto del fiume Hudson, che pure è urgentemente necessario, ha scritto: “Siamo bravi a scendere in guerra nell’Iraq e nell’Afganistan e a scagliare minacce contro l’Iran … ma non riusciamo più a fare nemmeno un’opera d’ingegneria che un tempo sarebbe stata quasi di ordinaria amministrazione… L’America, che ha tante volte stupito il mondo con la lungimiranza e la grandiosità delle sue imprese … sta perdendo le sue capacità e sempre più scivolando in basso… E non è soltanto questo… E’ che l’America sta perdendo l’anima … C’è stato un punto, ci sono state ragioni, ci sono stati momenti, in cui questo sconvolgimento è incominciato…”

Salvo menzionare le guerre in corso, il giornalista non si azzarda ad additare nessuna di queste ragioni e momenti misteriosi, eppure, per far capire perlomeno di che si tratta, gli basterebbe parlare del giornale sui cui scrive, il potente New York Times, ancor oggi considerato il più efficiente e il più influente quotidiano del mondo.

Di proprietà israelita ma, in passato, sempre molto attento a non far derivare da questo il tono dei suoi resoconti, il giornale, oltre a perdere rapidamente quota come qualità negli ultimi anni, si va sempre più chiaramente schierando dove lo spingono forze di parte legate all’ebraismo più fanatico e fondamentalista, nel tragico conflitto che vede gli Stati Uniti, e dietro ad essi il resto dell’occidente, sempre più impastoiati in una lotta insensata contro il mondo islamico, e ciò a solo vantaggio dell’espansionismo israeliano in Palestina. A volte – come è accaduto oggi – al punto da rendersi occasionalmente, e, sembrerebbe, quasi senza saperlo, portabandiera di queste forze nelle loro manifestazioni più repugnanti.

Oggi è la volta di un articolo su due intere pagine – una lunghezza assolutamente senza precedenti, per quanto io ne sappia, per questo giornale, da almeno mezzo secolo a questa parte – corredato da una ventina di fotografie a colori e segnalato vistosamente in prima pagina, in cui si fa la storia di una nuova esponente del movimento razzista e anti-Obama del cosiddetto “tea party” (vedi il mio articolo “Protofascisti all'assalto in America,” del 15.09.10). Si tratta di una repellente donnaccola, almeno per il mio gusto, di nome Pamela Geller, editrice di un blog sull’internet chiamato “Atlas Shrugs” (dal titolo di un famoso libro di Ayn Rand, la filosofa anarchica di destra degli anni Trenta), blog che sta passando il milione di lettori.

La specialità della Geller, nel quadro generale delle attività anti-Obama del “tea party” è un attacco sfrenato contro ogni e qualsiasi aspetto del mondo arabo. La Geller si definisce essa stessa “razzista islamofoba.” Proveniente da uno degli ambienti chic del mondo ebraico newyorkese, la donna propone una guerra ad oltranza contro l’intero mondo mussulmano e in particolare del movimento palestinese a cui dovrebbe essere negato perfino il possesso dei suoi secolari luoghi santi entro i confini di Gerusalemme: la stessa moschea di Al Aqsa, uno dei più venerati monumenti dell’islamismo, sul colle dove sorgeva un tempo il Tempio degli ebrei, dovrebbe essere rasa al suolo.

Non parliamo del trattamento che la Geller vorrebbe riserbare all’imam arabo che a New York vorrebbe costruire una moschea “di conciliazione tra le fedi” in vicinanza del luogo dove crollarono le torri del Trade Word Center, un progetto applaudito dal presidente Obama non meno che dal sindaco di New York Bloomberg, anche se egli stesso israelita; nè dell’obbrobrio espresso da questa arpia nei confronti di qualunque misura approvata finora dall’amministrazione democratica e dal presidente Obama che, secondo lei, sono anzi all’origine del declino che pure lei riconosce in atto negli Stati Uniti. “Un declino – ha detto – non solamente presieduto, ma attivamente promosso dal signor Obama.”

Non parliamo di tutte queste scemenze, dicevo, anche perchè ne parla in assurdo dettaglio il New York Times; con l’effetto, ovviamente, di dare enorme pubblicità ad una sciagurata fomentatrice d’odio nonchè alle sue nauseanti idee, una pubblicità del valore di centinaia di migliaia di dollari, anche se calcolata semplicemente in base alle tariffe del giornale. Se poi si pensa alle elezioni del mese prossimo in cui tutte le forze anti-Obama, anche le più mefitiche, si stanno coalizzando per negare al presidente una maggioranza in Congresso, il valore sale di molto.

Solo tre giorni prima della comparsa dell’articolo era finito a New York il processo contro l’attentatore pakistano-americano Faisal Shahzad, che cinque mesi fa parcheggiò un’auto con inefficienti esplosivi in Times Square. Dopo aver ascoltato la sua sentenza all’ergastolo, e aver chiesto e ottenuto di parlare, il condannato ha pronunciato un breve e sensato discorso sui rapporti arabi con l’occidente e sull’assurda crociata anti-islamica che procede da nove mesi. Il giudice (una donna) lo ha ascoltato con interesse ed equanimità, perfino ringraziandolo alla fine. Il New York Times, nel suo resoconto, ha riservato alle dichiarazioni di questo giovanotto che si prepara a passare una vita in galera, cinque righe.

Ancora pena di morte

(6 ottobre) L'articoletto "La pena di morte in Italia" (25.09.10) mi ha procurato molte proteste, alle quali vorrei rispondere brevemente. Eccettuando però quelle di carattere teologico (“la santità della vita”) che appartendo, per definizione, a una logica ultraterrena, non considero suscettibili di discussione terrestre.

Tutte le obbiezioni che mi sono state mosse si basano su uno di due argomenti, o su tutti e due. Il primo è un’asserita scarsa forza dissuasiva e preventiva della pena capitale sull’attività criminosa. E’ una insufficienza che non è stata mai possibile dimostrare; comunque, anche se dimostrata, sarebbe pur sempre meglio una forza insufficiente che nessuna forza. L’argomento non è, d’altra parte, il principale dei due.

L’altro consiste nella gravità unica di una pena che, nei casi in cui è il risultato di un errore giudiziario, è, a differenza di tutte le altre, irreparabile.

È un argomento importante; non è, tuttavia, un argomento contro la pena di morte. E’ un’argomento contro gli errori giudiziari quando conducano alla pena di morte, e perciò esso va svolto, ed effettivamente viene svolto, in questi termini, e non nei termini di un’inaccettabilità pregiudiziale della condanna a morte.

Innanzitutto bisogna scartare come un “non sequitur” l’idea che il numero delle ingiuste condanne a morte sia deducibile dal numero relativamente alto dei casi in cui l’ingiustizia viene scoperta per i condannati in attesa di esecuzione, e che sono i casi generalmente riportati dai giornali. Caso mai questo numero elevato indica il contrario, ossia che le cautele che vengono prese, e che sono straordinariamente abbondanti per lo meno nella procedura americana, per evitare l’errore quando sia stata comminata la pena capitale, funzionano effettivamente.

Lo stesso dicasi per un’altro aspetto caratteristico della sorte dei condannati nei penitenziari americani, sia federali che statali – per inciso, non tutti gli stati della federazione applicano la pena di morte – e cioè il fatto che i “bracci della morte” rigurgitano di detenuti che vi risiedono per tempi incomprensibilmente lunghi. La media è di una decina d’anni prima dell’esecuzione, che spesso diventano quindici o venti.

In Europa questa lunghissima attesa, anch’essa abbondantemente pubblicizzata dalla stampa e dai film, viene spesso giudicata il risultato di una specie di sadismo delle autorità penali americane. Invece si tratta, anche qui, esattamente del contrario, cioè del tempo occorrente per riesaminare tutti i possibili difetti procedurali e vagliare, man mano che vengono presentati, tutti i possibili elementi di fatto a favore di una revisione o commutazione della sentenza. Questo tempo è evidentemente tanto più lungo quanto più numerosi e meticolosi siano questi riesami.

All’atto pratico, il filtro rappresentato da queste procedure cautelative fa’ sì che il numero dei giustiziati vittime di un errore è infimo. Il che non significa che non ve ne siano. Ma il loro numero è diminuito attraverso il tempo, proprio per effetto della meritoria campagna contro l’errore giudizario, da non confondere, come dicevo, con la campagna contro la pena capitale. Ai progressi della medicina legale ha d’altra parte enormemente contribuito negli ultimi anni lo studio del “dna”, e non solamente per quanto riguarda i delitti sessuali.

Certo, il giorno in cui il numero delle vittime dell’errore sarà ridotto a zero è ancora di là da venire e magari non verrà mai. Non è tuttavia una ragione per abolire la pena capitale, così come l’impossibilità di ridurre a zero il numero incomparabilmente più alto degli innocenti travolti e uccisi dagli automobilisti ubriachi non è mai stata una ragione per abolire il traffico stradale.

Un esercito più o meno gaio

(1 ottobre) Da tempo i portabandiera progressisti premono sull’amministrazione di Washington perchè abolisca l’ultima remora ancora esistente sull’attività omosessuale nelle forze armate: la regola del “don’t ask, don’t tell” (“non dite nulla, e nulla vi sarà chiesto”), che proibisce ai gay di dichiararsi apertamente. Attualmente, se lo fanno, possono essere espulsi. Se tacciono possono rimanere, con l’assicurazione, prevista dalla regola, che nessuno gli chiederà da che parte stanno come vita sessuale.

Con due o tre guerre per le mani, assaliti dalle preoccupazioni più varie – suicidi delle reclute, soldati che impazziscono, soldati rimbecilliti dalla droga che commettono oscenità e atrocità senza precedenti, una percentuale di morti e mutilati che invece di diminuire aumenta, insufficienza degli effettivi con rotazioni troppo frequenti tra servizio al fronte e periodi in patria, eccessivo ricorso alla “national guard” o riserva territoriale che tra l’altro lascia troppo scoperto il territorio nazionale per il caso di catastrofi naturali o dolose – il segretario alla difesa Gates, il capo dello stato maggiore Mullen e il comandante supremo Obama non hanno ancora deciso come rispondere ai fautori della tolleranza totale nell'ambiente militare.

Il presidente e i suoi aiutanti esitano non per moralismo, ma per paura che l’ingresso aperto dei gay nelle forze armate dia un altro colpo alla loro efficienza, forse il colpo finale. D’altra parte i pro-gay sono una sezione non indifferente dell’elettorato, e un’amministrazione che già teme forti diserzioni nel voto di novembre per il rinnovo del Congresso non può prendere alla leggiera l’ostilità di un gruppo così importante.

L’elemento militare si trova di fronte a un fenomeno in parte simile a quello che turba la Chiesa cattolica. La spiegazione convenzionale della pederastia ecclesiastica è che il prete ne sviluppa gli appetiti perchè gli è precluso lo sfogo matrimoniale, ma io ritengo questa spiegazione invalida, perchè quegli appetiti si annunciano ben prima dell’età coniugale. Ciò che attrae veramente il seminarista gay è, in primo luogo, un ambiente prevalentemente maschile, con presenza e disponibilità di maschi grandi e piccoli. In secondo luogo è un ambiente conciliante verso i gay, e che più i gay aumentano, più conciliante diventa.

Quella che attrae all’ambiente militare il volontario gay è la prima di queste due caratteristiche. La seconda è meno presente, ma quando l’elemento gay, dall’essere tacitamente tollerato, diventasse ufficialmente accettato e protetto, e anche solo per questa ragione il suo numero cominciasse ad aumentare, i rischi per l’esercito volontario diventerebbero difficili da prevedere. E’ possibile che il pregiudizio nei suoi ranghi sia stato sottovalutato, e allora potrebbe spaccarsi in due. O che, al contrario, il pregiudizio si dissolva totalmente col tempo, e che allora l’aumentato flusso dei gay crei un ambiente non dissimile, per fare degli esempi, da quello dei ballerini o dei parrucchieri per signora. Perfino il suo comportamento di fronte al nemico, allora, diventerebbe un'incognita.