Pace o terrore a Gerusalemme

New York (23 marzo) News broke an hour ago that a bomb exploded outside a crowded bus station in Jerusalem. 25 are reported wounded, 15 seriously.

J Street President Jeremy Ben-Ami and Board Chair Davidi Gilo released the following statement from Jerusalem, where they participated in a debate at the Knesset earlier today:

J Street condemns in the strongest possible terms today’s attack in Jerusalem as well as the increase in rocket attacks on the south of Israel. Our hearts go out to the victims and their families and to the people of Israel who in recent days are experiencing once again an increase in terror and violence.

We support the state of Israel in taking the steps necessary to respond to today’s attacks, to protect all its citizens, and to bring those who perpetrated today’s attack to justice.

We are in Jerusalem today, a mile from the bombing, for a debate in Israel’s Knesset, at which we reiterated that the security of Israel depends on ending the conflict with the Palestinian people through a two-state solution.

We remember at this moment the advice of Yitzhak Rabin that we must fight terror as if there were no peace process, but pursue peace as if there were no terror.

Even on the blackest of days like today, we recall his words and seek to carry out his legacy.

Addio al "processo di pace"

New York (14 marzo) - Nessuno se n’è a quanto pare accorto, ma il governo di Bibi Netanyahu ha sferrato il suo colpo gobbo: da un giorno all’altro ha fatto sparire per sempre il miraggio di uno stato palestinese da creare al di qua del Giordano accanto al territorio dello stato israeliano. Lo ha fatto con due semplici annunci dati di persona da Netanyahu. Il primo tre giorni fa durante un’ispezione sulla riva del fiume; il secondo a Gerusalemme, inserito abilmente ieri in un discorso di denuncia dell’assassinio di una famiglia di coloni illegali ebrei nella zona d’occupazione.

“Su questa riva – ha detto il premier israeliano nel giro lungo il Giordano che ricorda la visita di Sharon sul colle di Gerusalemme – si istallerà un cordone difensivo dei nostri soldati.” Questo è stato il suo primo annuncio. Il secondo è che la campagna edilizia di appropriazione della zona occupata da parte dei coloni riprenderà adesso senza più remore di alcun tipo. “Loro sparano (per modo di dire; le vittime in quest’ultimo episodio di terrorismo erano state accoltellate) e noi costruiamo.”

Adesso, pensare che riprenderà il cosiddetto processo di pace – sono parole che nessuno usa più, per sazietà - non è più soltanto un’illusione, è una sciocchezza. Si profila invece una visione ben diversa, quella di un territorio accerchiato da un latomediante un insediamento miltare permanente, dall’altro dagli insediamenti edilizi in avanzata. Mutatis mutandis quella che si profila è una seconda Gaza, solo più grande, un vasto campo di concentramento i cui guardiani saranno i kapò ebrei, i quali saranno in possesso di tutto e potranno aprire e chiudere secondo la loro volontà i bocchettoni di approvvigionamento della zona: acqua, viveri, tutto.

Magari questo campo verrà chiamato uno “stato economico,” termine inventato dallo stesso Netanyhau giorni addietro per adombrare questa nuova creazione politica, di una società che vive solo di economia, o magari di elemosina mascherata da economia.

Un episodio parlante si è verificato intanto mentre il mondo teneva gli occhi girati da altre parti, fossero esse il subbuglio nella regione araba o il finimondo in Giappone. Il Mossad ha rapito e messo in stato di isolamento un esperto palestinese di forniture di energia, che a Gaza stava cercando di installare un tramite di forniture energetiche in provenienza dall’Egitto da mettere accanto a quelle provenienti da Israele. Così delle forniture egiziane non si farà niente. Il bantustan di Gaza rimane in tutto e per tutto dipendente dipendente dalla volontà dei padroni ebrei, per l’energia come per qualsiasi altro aspetto del suo fabbisogno.

Il congresso di 'J Street'

Washington (8 Marzo) – La sorpresa della settimana scorsa a Washington è stata l’eccezionale partecipazione di duemila persone provenienti da tutti gli stati della confederazione al congresso nazionale dell’associazione ebraica ‘J Street’, nata di recente per riunire gli ebrei americani che invocano una rapida pace con i palestinesi. E’ più del doppio di quello che si attendevano gli organizzatori. Il capo del movimento, l’israelo-americano Jeremy Ben Ami, ha anche comunicato con grande emozione al congresso che il numero degli aderenti al nuovo movimento supera ormai le 170.000 persone.

Al congresso, che si è chiuso ieri, partecipava gente di tutte le età ma con prevalenza di giovani e di persone di un elevato livello sociale e culturale, studenti, accademici, dirigenti governativi, avvocati, esponenti dell’economia; il fior fiore del mondo ebraico americano, che capisce che la pace e la conciliazione con il popolo devastato dall’ insediamento israeliano nel cuore del mondo islamico sono non solo una linea morale e giusta, ma anche una linea che serve gli interessi d’ Israele ben più della sorniona strategia di espansione e di forza messa in opera da perlomeno un decennio dal governo operante da Gerusalemme. Erano presenti al congresso esponenti dell’ambiente politico israeliano, tra cui cinque membri del Knesset, e agli organizzatori sono pervenute lettere di incoraggiamento dal presidente israeliano Peres e dalla dirigente del movimento d’opposizione israeliano Tzipi Livni.

Quella che non è stata, invece, la sorpresa di questo congresso è stato che nessuno dei ‘media’ americani di massa, a cominciare dai grandi quotidiani come il New York Times e il Washington Post, ha pubblicato una parola su questo notevole avvenimento. Dico che non è una sorpresa, perchè non è mai accaduto che notizie che vanno in senso opposto alla linea estremista e fondamentalista del governo israeliano nonchè delle grandi organizzazioni ebraiche conservatrici degli Stati Uniti, come l’AIPAC e l’’Anti-Defamation League’ e varie altre siano state riportate dai grandi media, tutti in gran parte controllati e finanziati da queste organizzazioni stesse. Nè si è avuta una partecipazione adeguata da parte del governo americano sempre estremamente timido quando si tratta di contrastare la politica delle grandi organizzazioni israelo-americano, per non parlare del Congresso, dove un’assoluta maggioranza di membri deve il proprio seggio o dipende in una maniera o in un’altra dall’aiuto finanziario degli ebrei estremisti.

Il comune denominatore degli interventi al congresso di ‘J Street’ può essere intuito: il rivolgimento in atto nel mondo arabo rappresenta un’occasione tanto unica quanto, forse, ultima, per lanciare un nuovo, vero, fattivo sforzo per un accordo di pace in Palestina; il governo americano, da parte sua, deve sentire la necessità e il dovere di intervenire una volta tanto in maniera concreta presentando un proprio dettagliato accordo di pace e prodigandosi per la sua accettazione. Esso non può più limitarsi ad esibire una supposta neutralità e a ripetere le invocazioni al cosiddetto ‘processo di pace’ (“parole divenute nauseanti,” ha detto un congressista), quando poi la distanza che almeno sulla carta separa i contendenti è minima e può essere superata lungo le linee sempre teoricamente sostenute dalle amministrazioni di Washington. Queste linee, poi, coincidono quasi totalmente con quelle oggi caldeggiate dal primo ministro palestinese Fayad, e dovrebbero costituire una concreta risposta alle offerte di conciliazione con l’Islam lanciate da tempo dai governi mussulmani.

Una proposta interessante fatta da un partecipante al congresso è stata di stabilire una chiara distinzione tra la vasta quantità di ebrei che, sia in America che in Israele, vogliono veramente la pace, e quella massa conservatrice che da tempo controlla il governo israeliano che, mentre si esprime a parole per la pace, in realtà favorisce e mette in atto una linea segreta di espansione degli ebrei su tutto il territorio israeliano tra il mare e il Giordano. La proposta include l’idea che ai seguaci delle organizzazioni tipo AIPAC venga dato l’appellativo di “Giudei”, in riconoscimento del fatto che la loro politica è intesa in realtà all’espansione aggressiva di Israele nei territori di Giudea e Samaria, che un tempo coincidevano sostanzialmente con il confine territoriale del Regno di Giuda.

Chi scrive si propone, non appena ne avrà la possibilità, di sottoporre agli Italiani larghi estratti degli interventi al congresso, anche per vedere se si possa in Italia alimentare una intelligente politica di opposizione all’estremismo dei gruppi organizzati ebraici. I quali ultimi, tra l’altro, per motivi non facilmente comprensibili, sembrano essere favoriti dal governo Berlusconi, soprattutto nella persona del ministro Frattini che ogni anno venendo in America tiene ad incontrarsi con gli esponenti dell’AIPAC e delle altre organizzazioni conservatrici israelo-americane, ma finora ha ignorato il valore e l’esistenza di ‘J Street.’ e della sua base pacifista.