La ritirata americana dall'Afganistan

New York (23 giugno) Con otto anni di ritardo e dopo perdite che hanno dissanguato l’America in termini sia reali che figurativi, il presidente Obama ha annunciato ieri sera la sconfitta degli Stati Uniti nella guerra contro il Taliban in Afganistan.


Dico otto anni di ritardo, perchè la sconfitta, come scrissi all’epoca, era già avvenuta il momento stesso che lo sciagurato predecessore alla Casa Bianca aveva deciso di stornare dall’Afganistan le forze degli Stati Uniti e di dedicarle ad un’altra impresa – l’asservimento dell’Iraq - messagli nella testa dai suoi suggeritori ‘neocon,’ ovvero dalla coalizione di estremisti religiosi protestanti e ebrei agente nell’interesse di Israele.


Io scrissi – nell’articolo che apparve sul quotidiano italiano La Stampa – che si trattava solo di vedere se la sconfitta avrebbe rassomigliato a quella del Vietnam, con gli americani e i loro sostenitori aggrappati agli elicotteri, ovvero in modo meno drammatico.


Così come si è materializzata, la sconfitta rivestirà piuttosto, almeno così sembra, la seconda veste, con uno stillicidio continuo che terminerà solo quando l’ultimo soldato americano avrà levato i tacchi dalla terra degli Afgani. Ma non c’è dubbio che questi ultimi, nel frattempo, saranno ritornati interamente o quasi allo stato di primitivismo, tribalismo e corruzione che è tuttora la loro naturale condizione storica, e dal quale l’incursione americana, se non fosse stata nullificata dalla diversione verso l’Iraq, sarebbe riuscita forse a sollevarli.


La ritirata dall’Afganistan annunciata ieri sera era comunque inevitabile e non rimandabile, e Obama ha fatto bene a prevalere su quella parte dei suoi consiglieri che insistevano perchè si continuasse l’impresa. Adesso si tratta solo di vedere quand’è che essa sarà seguita da una decisione analoga per l’Iraq, anche se l’anarchia e la guerra civile che ne conseguiranno senza alcun dubbio potranno avere per l’America ripercussioni più gravi. Ma è stata per Obama un coraggioso primo passo, che sicuramente ne anticipa altri con cui il presidente cercherà di ritornare alla linea di equanimità e di legalità internazionali che egli aveva annunciato al momento della sua entrata in carica.


In primo luogo Obama dovrà concludere, e non c’è dubbio che riuscirà a farlo, la bastonatura e defenestrazione del dittatore della Libia, e questo per una quantità di motivi, ma in primo luogo perchè il non farlo produrrebbe una impensabile rottura con l’Europa e un altrettanto impensabile abbandono della linea di sostegno alla rivoluzione araba. Sostegno a cui il presidente è stato indotto dalle circostanze storiche, dalla natura intima della democrazia americana e dalla necessità di riacquistare una qualche credibilità agli occhi di chi attende da lui l’imposizione di un regime di giustizia e pulizia in una regione vitale per gli interessi occidentali, ossia il Medio Oriente.


La prontezza, l’audacia e l’assenza di riserve con cui Obama si è gettato nella mischia della ‘primavera araba’, prima dichiarando il suo sostegno alla trasformazione dell’Egitto e agli altri Paesi del ‘vicino Oriente’, poi intervenendo materialmente per l’estromissione di Gheddafi, indicano di per se stessi il senso e l’ampiezza di respiro dell’operazione; operazione avviata, significativamente, contro l’opposizione dello stesso Congresso americano, vale a dire dell’elemento ‘neocon’ (oggi coincidente in parte col ‘tea party) e di quinta colonna israeliana da cui questo è sempre più dominato. L’abbandono dell’Afganistan ‘coute que coute’ è il primo necessario passo in questa direzione. Avrà tempo Obama prima che la sua autorità sia rimessa in gioco, di avanzare in maniera decisiva su una strada che può portare, a suo tempo, all’eliminazione dell’elemento estremista e razzista che tuttora intossica il Medio Oriente, in Israele non meno che nell’Arabia Saudita? Questa è la più fondamentale delle domande che derivano dalla svolta strategica annunciata da Obama.