La rivoluzione egiziana e gli ebrei intelligenti

(13 febbraio) - Sono abbastanza malridotto e a letto con febbre alta, ma il minimo che sento di dover fare e' di aiutare per quel tanto che mi e' possibile la diffusione del seguente messaggio dell'Organizzazione J Street, quella degli ebrei americani intelligenti che vogliono la pace, dopo la defenestrazione di Mubarak:

We applaud the bravery of the Egyptian people who have inspired the world through their nonviolent movement to secure an Egypt that guarantees representative government, opportunity and dignity.

The cries of the Egyptian people for freedom and democracy have echoed across the globe with people of all races, religions and backgrounds who have known oppression and tyranny. We have all been inspired by the courage of those who, against all odds, took to the streets and changed the world – in particular, the younger generation which has led the way, seeking not only greater freedom but a better future for themselves and their families.

We hope that the military council which has taken control of Egypt will fulfill its commitment to hold elections and manage a smooth and rapid transition toward democracy and civilian rule, in keeping with the nonviolent spirit of the people on prominent display before the world these past few weeks.

Today, a new chapter opens in the history not just of Egypt, but of the Middle East. We pray it is a chapter rooted in freedom, dignity and respect for others. As Americans, Jews, and friends of Israel, we hope as well it is a chapter rooted in peace, and that the treaty between Israel and Egypt remains, as it has been, a bedrock of stability in a volatile region.

The epic changes underway in the broader Arab world have important implications for Israel, beyond simply its bilateral relationship with Egypt, as well as for the United States. It is now even more imperative to seriously pursue a resolution to the Israeli-Palestinian conflict. Former Prime Minister Ehud Olmert provided the following advice this week to his successor Benjamin Netanyahu in light of events in Egypt: “Don’t wait. Move, lead and make history. This is the time. There will not be a better one.”

The tides of history are with those seeking their freedom, and it is imperative for the United States and Israel to work proactively to achieve a two-state solution to the conflict. Today’s news from Egypt only increases the urgency, making clear once again that in these historic tides, an unsustainable status quo will not hold.

L'eruzione del vulcano islamico e Israele

(6 febbraio) L’agitazione del mondo arabo è incominciata precisamente all’indomani del crollo di ogni speranza di composizione del conflitto palestinese, una speranza che, dopo sessant’anni di delusioni, era stata sollevata dall’elezione del presidente nero negli Stati Uniti e dai suoi interventi in favore della pace. Questa coincidenza non è stata segnalata da nessun “media” americano, che come sempre, applica il silenziatore ogni volta che si tratti di menzionare eventi in qualche maniera sgraditi alla sezione fondamentalista della comunità israelo-americana.


Sull’internet invece la coincidenza viene ampiamente dibattuta, sostanzialmente lungo due linee: gli arabi sono in rivolta per questa ennesima frustrazione (la linea è sostenuta dai sostenitori, ebrei e non ebrei, del processo di pace); non è invece vero nulla, la rivolta è determinata dalle condizioni di fame in cui le popolazioni sono tenute dai governi conservatori arabi. Ma evidentemente non c’è incompatibilità tra le due argomentazioni. Può darsi benissimo che la scintilla sia stata determinata dalla scomparsa delle speranze di pace e l’incendio alimentato dalle condizioni insopportabili della maggior parte delle popolazioni mediorientali.


Senza prendere in nessuna considerazione le cause delle sommosse, i commentatori che si preoccupano esclusivamente della situazione di Israele hanno preso l’occasione per risollevare sul New York Times, in un ampio articolo-appello sulla pagina degli editoriali, il ciclico lamento per la eventualità che Israele si trovi nuovamente circondata da regimi ostili. Però dell’idea che l’ostilità possa essere mitigata o addirittura cancellata da qualche vera, sincera, concreta mossa per condurre alla fine la tragica saga dell’occupazione del territorio palestinese nemmeno una parola.


Le uniche voci che dagli USA abbiano invocato un nuovo sforzo di pace presentandolo non come impulso umanitario, ma per analisi obbiettiva delle circostanze che governano lo svolgersi della situazione sono state, come altre volte in situazioni simili, quelle del columnist Thomas Friedman e quelle del suo collega Roger Cohen, tutti e due di origine israelita e tutti e due del New York Times; ma con altrettanta regolarità questi significativi interventi sono stati ignorati dal resto della stampa americana (Friedman è stato uno dei due autori, insieme a un governante idealista dell’Arabia saudita, del piano per un riconoscimento collettivo di Israele da parte del mondo arabo in cambio di una reale decisione di Israele di rendere giustizia al popolo palestinese, e questo piano è da tempo uno degli ingredienti diplomatici più positivi di ogni sforzo per una soluzione del conflitto).


In Israele, finora la reazione ufficiale alla possibilità di un crollo dei regimi collaborazionisti arabi è esattamente l’opposto di quella auspicata da Friedman; “dobbiamo guardarci intorno con gli occhi ben aperti,” ha detto in parlamento il premier Bibi Netanyahu. “La base della nostra stabilità, del nostro futuro e del mantenimento o allargamento della pace consiste nel rafforzare la potenza dello stato d’Israele.” Voci di opposizione, come quella della leader del partito di centro-destra Kadima, Tzipi Livni, si stanno levando, ma fievoli e per il momento scevre di conseguenze pratiche.


Ora è da vedere come la situazione in Egitto, chiave per un qualsiasi sviluppo di reale rinnovamento della situazione, si svolgerà nello scontro tra il pugno di ferro di Mubarak e la popolazione. Io ricordo le manifestazioni di delirante entusiasmo e prorompente forza rivoluzionaria che affiancarono da parte della popolazione l’elemento militare capeggiato da Naguib e poi da Nasser nella lotta contro il protettorato inglese, di cui fui testimone e relatore come inviato. Se questo impeto, analogo a quello che portò alla redenzione dell’Iran, esiste ancora, una trasformazione del quadro mediorientale non potrà essere arrestata; nel caso contrario, si sarà trattato soltanto di uno dei tanti inutili conati di rinnovamento che da decenni si accendono e si spengono sopra panorama islamico.

Un altro termometro di strordinario interesse, e del tutto nuovo, della situazione sara' il primo congresso nazionale di "J Street", l'organizzazione degli ebrei americani non fanatici e non fondamentalisti, nonche' strenuamente favorevoli alla pace, che si terra' alla fine di questo mese a Washington. Nata solo da pochi mesi come contrappeso alle entita' israelo-americane che, come la famigerata AIPAC, appoggiano il governo israeliano qualunque sciocchezza o atrocita' esso commetta, essa conta adesso decine di migliaia di aderenti. A differenza del governo americano che comincia a rendersi conto dell'importanza di questa nuova voce anche sul piano interno, nessuno degli alleati dell'America soggetti all'influenza del fondamentalismo israeliano (tra questi, ovviamente, il governo italiano) ha voluto finora prendere atto dell'esistenza di questa imbarazzante voce antiortodossa. "Manhattan Express" intende raddoppiare i suoi sforzi perche' essa venga ascoltata, e tanto per cominciare sara' presente al congresso per renderne conto ai suoi lettori.