(6 febbraio) L’agitazione
Sull’internet invece la coincidenza viene ampiamente dibattuta, sostanzialmente lungo due linee: gli arabi sono in rivolta per questa ennesima frustrazione (la linea è sostenuta dai sostenitori, ebrei e non ebrei, del processo di pace); non è invece vero nulla, la rivolta è determinata dalle condizioni di fame in cui le popolazioni sono tenute dai governi conservatori arabi. Ma evidentemente non c’è incompatibilità tra le due argomentazioni. Può darsi benissimo che la scintilla sia stata determinata dalla scomparsa delle speranze di pace e l’incendio alimentato dalle condizioni insopportabili della maggior parte delle popolazioni mediorientali.
Senza prendere in nessuna considerazione le cause delle sommosse, i commentatori che si preoccupano esclusivamente della situazione di Israele hanno preso l’occasione per risollevare sul New York Times, in un ampio articolo-appello sulla pagina degli editoriali, il ciclico lamento per la eventualità che Israele si trovi nuovamente circondata da regimi ostili. Però dell’idea che l’ostilità possa essere mitigata o addirittura cancellata da qualche vera, sincera, concreta mossa per condurre alla fine la tragica saga dell’occupazione
Le uniche voci che dagli USA abbiano invocato un nuovo sforzo di pace presentandolo non come impulso umanitario, ma per analisi obbiettiva delle circostanze che governano lo svolgersi della situazione sono state, come altre volte in situazioni simili, quelle del columnist Thomas Friedman e quelle del suo collega Roger Cohen, tutti e due di origine israelita e tutti e due del New York Times; ma con altrettanta regolarità questi significativi interventi sono stati ignorati dal resto della stampa americana (Friedman è stato uno dei due autori, insieme a un governante idealista dell’Arabia saudita, del piano per un riconoscimento collettivo di Israele da parte del mondo arabo in cambio di una reale decisione di Israele di rendere giustizia al popolo palestinese, e questo piano è da tempo uno degli ingredienti diplomatici più positivi di ogni sforzo per una soluzione del conflitto).
In Israele, finora la reazione ufficiale alla possibilità di un crollo dei regimi collaborazionisti arabi è esattamente l’opposto di quella auspicata da Friedman; “dobbiamo guardarci intorno con gli occhi ben aperti,” ha detto in parlamento il premier Bibi Netanyahu. “La base della nostra stabilità,
Ora è da vedere come la situazione in Egitto, chiave per un qualsiasi sviluppo di reale rinnovamento della situazione, si svolgerà nello scontro tra il pugno di ferro di Mubarak e la popolazione. Io ricordo le manifestazioni di delirante entusiasmo e prorompente forza rivoluzionaria che affiancarono da parte della popolazione l’elemento militare capeggiato da Naguib e poi da
Un altro termometro di strordinario interesse, e del tutto nuovo, della situazione sara' il primo congresso nazionale di "J Street", l'organizzazione degli ebrei americani non fanatici e non fondamentalisti, nonche' strenuamente favorevoli alla pace, che si terra' alla fine di questo mese a Washington. Nata solo da pochi mesi come contrappeso alle entita' israelo-americane che, come la famigerata AIPAC, appoggiano il governo israeliano qualunque sciocchezza o atrocita' esso commetta, essa conta adesso decine di migliaia di aderenti. A differenza del governo americano che comincia a rendersi conto dell'importanza di questa nuova voce anche sul piano interno, nessuno degli alleati dell'America soggetti all'influenza del fondamentalismo israeliano (tra questi, ovviamente, il governo italiano) ha voluto finora prendere atto dell'esistenza di questa imbarazzante voce antiortodossa. "Manhattan Express" intende raddoppiare i suoi sforzi perche' essa venga ascoltata, e tanto per cominciare sara' presente al congresso per renderne conto ai suoi lettori.