Le nuove 'prime' dell'America


New York (7 luglio) L’America, come tutti sanno, è il paese delle prime. Appena dieci anni fa non vi era chi non riconoscesse che l’America era diventata “il primo Paese del mondo.” Adesso l’America ha raggiunto, o sta per raggiungere, altre prime storiche, ma sono di un carattere diverso da quella là.


- Per la prima volta, l’America sta preparando il fallimento di un bilancio nazionale, il suo, per un’entità mai prima raggiunta in tutta la sua storia;


- Per la prima volta nella storia, gli istituti americani che calcolano l’affidabilità degli enti debitori di qualunque Paese, tipo e grandezza, si apprestano a ridurre di un gradino il prestito nazionale americano;


- Per la prima volta nella storia, una maggioranza di due terzi degli Americani, interpellata dagli istituti demografici, ha dichiarato di considerare il precedente decennio, cioè dal 2001 al 2011, come un periodo di declino anzichè di progresso;


- Per la prima volta nella storia,il 55 per cento degli Americani pensa che i bambini americani di oggi saranno, una volta adulti, in condizioni peggiori dei propri genitori;


- Per la prima volta nella storia, l’America non ha un grande programma di natura economica, infrastrutturale o civile in corso, perchè l’ultimo che aveva, il programma di conquista dello spazio attraverso le sue navette spaziali, sta per chiudere i battenti con il pensionamento della sua ultima navetta ancora in funzione, l’Atlantis.


- Per la prima volta nella storia, l’uno per cento degli americani che è al vertice del registro dei contribuenti guadagna, collettivamente, più del novanta per cento che è in fondo al registro stesso.


Questa lista di primati lascia pensare che, per la prima volta nella storia, l’America si trovi, grazie alle forze che prevalgono nei suoi organi costituzionali, primariamente il Congresso; grazie alle guerre in cui si è impelagata nell’ultimo decennio con lo sperpero di un numero incalcolabile di trilioni; e grazie allo sfascio dei suoi meccanismi finanziari, in un momento di reale schifezza. Di chi è la principale colpa? Noi, se pensiamo a quale Mafia oggi controlla oggi il Congresso; a quale Mafia ha spinto l’America nell’abisso di queste guerre; e a quale Mafia manovra al vertice dei suoi meccanismi finanziari - anche se poi non si tratta veramente di una mafia e anche se non è affatto italiana - vorremmo fare dei nomi,. Ma se lo facessimo verremmo imputati di un’azione spaventosa. Allora invitiamo solamente chi legge a rifletterci un po’ e a suggerire la propria soluzione.

La ritirata americana dall'Afganistan

New York (23 giugno) Con otto anni di ritardo e dopo perdite che hanno dissanguato l’America in termini sia reali che figurativi, il presidente Obama ha annunciato ieri sera la sconfitta degli Stati Uniti nella guerra contro il Taliban in Afganistan.


Dico otto anni di ritardo, perchè la sconfitta, come scrissi all’epoca, era già avvenuta il momento stesso che lo sciagurato predecessore alla Casa Bianca aveva deciso di stornare dall’Afganistan le forze degli Stati Uniti e di dedicarle ad un’altra impresa – l’asservimento dell’Iraq - messagli nella testa dai suoi suggeritori ‘neocon,’ ovvero dalla coalizione di estremisti religiosi protestanti e ebrei agente nell’interesse di Israele.


Io scrissi – nell’articolo che apparve sul quotidiano italiano La Stampa – che si trattava solo di vedere se la sconfitta avrebbe rassomigliato a quella del Vietnam, con gli americani e i loro sostenitori aggrappati agli elicotteri, ovvero in modo meno drammatico.


Così come si è materializzata, la sconfitta rivestirà piuttosto, almeno così sembra, la seconda veste, con uno stillicidio continuo che terminerà solo quando l’ultimo soldato americano avrà levato i tacchi dalla terra degli Afgani. Ma non c’è dubbio che questi ultimi, nel frattempo, saranno ritornati interamente o quasi allo stato di primitivismo, tribalismo e corruzione che è tuttora la loro naturale condizione storica, e dal quale l’incursione americana, se non fosse stata nullificata dalla diversione verso l’Iraq, sarebbe riuscita forse a sollevarli.


La ritirata dall’Afganistan annunciata ieri sera era comunque inevitabile e non rimandabile, e Obama ha fatto bene a prevalere su quella parte dei suoi consiglieri che insistevano perchè si continuasse l’impresa. Adesso si tratta solo di vedere quand’è che essa sarà seguita da una decisione analoga per l’Iraq, anche se l’anarchia e la guerra civile che ne conseguiranno senza alcun dubbio potranno avere per l’America ripercussioni più gravi. Ma è stata per Obama un coraggioso primo passo, che sicuramente ne anticipa altri con cui il presidente cercherà di ritornare alla linea di equanimità e di legalità internazionali che egli aveva annunciato al momento della sua entrata in carica.


In primo luogo Obama dovrà concludere, e non c’è dubbio che riuscirà a farlo, la bastonatura e defenestrazione del dittatore della Libia, e questo per una quantità di motivi, ma in primo luogo perchè il non farlo produrrebbe una impensabile rottura con l’Europa e un altrettanto impensabile abbandono della linea di sostegno alla rivoluzione araba. Sostegno a cui il presidente è stato indotto dalle circostanze storiche, dalla natura intima della democrazia americana e dalla necessità di riacquistare una qualche credibilità agli occhi di chi attende da lui l’imposizione di un regime di giustizia e pulizia in una regione vitale per gli interessi occidentali, ossia il Medio Oriente.


La prontezza, l’audacia e l’assenza di riserve con cui Obama si è gettato nella mischia della ‘primavera araba’, prima dichiarando il suo sostegno alla trasformazione dell’Egitto e agli altri Paesi del ‘vicino Oriente’, poi intervenendo materialmente per l’estromissione di Gheddafi, indicano di per se stessi il senso e l’ampiezza di respiro dell’operazione; operazione avviata, significativamente, contro l’opposizione dello stesso Congresso americano, vale a dire dell’elemento ‘neocon’ (oggi coincidente in parte col ‘tea party) e di quinta colonna israeliana da cui questo è sempre più dominato. L’abbandono dell’Afganistan ‘coute que coute’ è il primo necessario passo in questa direzione. Avrà tempo Obama prima che la sua autorità sia rimessa in gioco, di avanzare in maniera decisiva su una strada che può portare, a suo tempo, all’eliminazione dell’elemento estremista e razzista che tuttora intossica il Medio Oriente, in Israele non meno che nell’Arabia Saudita? Questa è la più fondamentale delle domande che derivano dalla svolta strategica annunciata da Obama.

Pace o terrore a Gerusalemme

New York (23 marzo) News broke an hour ago that a bomb exploded outside a crowded bus station in Jerusalem. 25 are reported wounded, 15 seriously.

J Street President Jeremy Ben-Ami and Board Chair Davidi Gilo released the following statement from Jerusalem, where they participated in a debate at the Knesset earlier today:

J Street condemns in the strongest possible terms today’s attack in Jerusalem as well as the increase in rocket attacks on the south of Israel. Our hearts go out to the victims and their families and to the people of Israel who in recent days are experiencing once again an increase in terror and violence.

We support the state of Israel in taking the steps necessary to respond to today’s attacks, to protect all its citizens, and to bring those who perpetrated today’s attack to justice.

We are in Jerusalem today, a mile from the bombing, for a debate in Israel’s Knesset, at which we reiterated that the security of Israel depends on ending the conflict with the Palestinian people through a two-state solution.

We remember at this moment the advice of Yitzhak Rabin that we must fight terror as if there were no peace process, but pursue peace as if there were no terror.

Even on the blackest of days like today, we recall his words and seek to carry out his legacy.

Addio al "processo di pace"

New York (14 marzo) - Nessuno se n’è a quanto pare accorto, ma il governo di Bibi Netanyahu ha sferrato il suo colpo gobbo: da un giorno all’altro ha fatto sparire per sempre il miraggio di uno stato palestinese da creare al di qua del Giordano accanto al territorio dello stato israeliano. Lo ha fatto con due semplici annunci dati di persona da Netanyahu. Il primo tre giorni fa durante un’ispezione sulla riva del fiume; il secondo a Gerusalemme, inserito abilmente ieri in un discorso di denuncia dell’assassinio di una famiglia di coloni illegali ebrei nella zona d’occupazione.

“Su questa riva – ha detto il premier israeliano nel giro lungo il Giordano che ricorda la visita di Sharon sul colle di Gerusalemme – si istallerà un cordone difensivo dei nostri soldati.” Questo è stato il suo primo annuncio. Il secondo è che la campagna edilizia di appropriazione della zona occupata da parte dei coloni riprenderà adesso senza più remore di alcun tipo. “Loro sparano (per modo di dire; le vittime in quest’ultimo episodio di terrorismo erano state accoltellate) e noi costruiamo.”

Adesso, pensare che riprenderà il cosiddetto processo di pace – sono parole che nessuno usa più, per sazietà - non è più soltanto un’illusione, è una sciocchezza. Si profila invece una visione ben diversa, quella di un territorio accerchiato da un latomediante un insediamento miltare permanente, dall’altro dagli insediamenti edilizi in avanzata. Mutatis mutandis quella che si profila è una seconda Gaza, solo più grande, un vasto campo di concentramento i cui guardiani saranno i kapò ebrei, i quali saranno in possesso di tutto e potranno aprire e chiudere secondo la loro volontà i bocchettoni di approvvigionamento della zona: acqua, viveri, tutto.

Magari questo campo verrà chiamato uno “stato economico,” termine inventato dallo stesso Netanyhau giorni addietro per adombrare questa nuova creazione politica, di una società che vive solo di economia, o magari di elemosina mascherata da economia.

Un episodio parlante si è verificato intanto mentre il mondo teneva gli occhi girati da altre parti, fossero esse il subbuglio nella regione araba o il finimondo in Giappone. Il Mossad ha rapito e messo in stato di isolamento un esperto palestinese di forniture di energia, che a Gaza stava cercando di installare un tramite di forniture energetiche in provenienza dall’Egitto da mettere accanto a quelle provenienti da Israele. Così delle forniture egiziane non si farà niente. Il bantustan di Gaza rimane in tutto e per tutto dipendente dipendente dalla volontà dei padroni ebrei, per l’energia come per qualsiasi altro aspetto del suo fabbisogno.

Il congresso di 'J Street'

Washington (8 Marzo) – La sorpresa della settimana scorsa a Washington è stata l’eccezionale partecipazione di duemila persone provenienti da tutti gli stati della confederazione al congresso nazionale dell’associazione ebraica ‘J Street’, nata di recente per riunire gli ebrei americani che invocano una rapida pace con i palestinesi. E’ più del doppio di quello che si attendevano gli organizzatori. Il capo del movimento, l’israelo-americano Jeremy Ben Ami, ha anche comunicato con grande emozione al congresso che il numero degli aderenti al nuovo movimento supera ormai le 170.000 persone.

Al congresso, che si è chiuso ieri, partecipava gente di tutte le età ma con prevalenza di giovani e di persone di un elevato livello sociale e culturale, studenti, accademici, dirigenti governativi, avvocati, esponenti dell’economia; il fior fiore del mondo ebraico americano, che capisce che la pace e la conciliazione con il popolo devastato dall’ insediamento israeliano nel cuore del mondo islamico sono non solo una linea morale e giusta, ma anche una linea che serve gli interessi d’ Israele ben più della sorniona strategia di espansione e di forza messa in opera da perlomeno un decennio dal governo operante da Gerusalemme. Erano presenti al congresso esponenti dell’ambiente politico israeliano, tra cui cinque membri del Knesset, e agli organizzatori sono pervenute lettere di incoraggiamento dal presidente israeliano Peres e dalla dirigente del movimento d’opposizione israeliano Tzipi Livni.

Quella che non è stata, invece, la sorpresa di questo congresso è stato che nessuno dei ‘media’ americani di massa, a cominciare dai grandi quotidiani come il New York Times e il Washington Post, ha pubblicato una parola su questo notevole avvenimento. Dico che non è una sorpresa, perchè non è mai accaduto che notizie che vanno in senso opposto alla linea estremista e fondamentalista del governo israeliano nonchè delle grandi organizzazioni ebraiche conservatrici degli Stati Uniti, come l’AIPAC e l’’Anti-Defamation League’ e varie altre siano state riportate dai grandi media, tutti in gran parte controllati e finanziati da queste organizzazioni stesse. Nè si è avuta una partecipazione adeguata da parte del governo americano sempre estremamente timido quando si tratta di contrastare la politica delle grandi organizzazioni israelo-americano, per non parlare del Congresso, dove un’assoluta maggioranza di membri deve il proprio seggio o dipende in una maniera o in un’altra dall’aiuto finanziario degli ebrei estremisti.

Il comune denominatore degli interventi al congresso di ‘J Street’ può essere intuito: il rivolgimento in atto nel mondo arabo rappresenta un’occasione tanto unica quanto, forse, ultima, per lanciare un nuovo, vero, fattivo sforzo per un accordo di pace in Palestina; il governo americano, da parte sua, deve sentire la necessità e il dovere di intervenire una volta tanto in maniera concreta presentando un proprio dettagliato accordo di pace e prodigandosi per la sua accettazione. Esso non può più limitarsi ad esibire una supposta neutralità e a ripetere le invocazioni al cosiddetto ‘processo di pace’ (“parole divenute nauseanti,” ha detto un congressista), quando poi la distanza che almeno sulla carta separa i contendenti è minima e può essere superata lungo le linee sempre teoricamente sostenute dalle amministrazioni di Washington. Queste linee, poi, coincidono quasi totalmente con quelle oggi caldeggiate dal primo ministro palestinese Fayad, e dovrebbero costituire una concreta risposta alle offerte di conciliazione con l’Islam lanciate da tempo dai governi mussulmani.

Una proposta interessante fatta da un partecipante al congresso è stata di stabilire una chiara distinzione tra la vasta quantità di ebrei che, sia in America che in Israele, vogliono veramente la pace, e quella massa conservatrice che da tempo controlla il governo israeliano che, mentre si esprime a parole per la pace, in realtà favorisce e mette in atto una linea segreta di espansione degli ebrei su tutto il territorio israeliano tra il mare e il Giordano. La proposta include l’idea che ai seguaci delle organizzazioni tipo AIPAC venga dato l’appellativo di “Giudei”, in riconoscimento del fatto che la loro politica è intesa in realtà all’espansione aggressiva di Israele nei territori di Giudea e Samaria, che un tempo coincidevano sostanzialmente con il confine territoriale del Regno di Giuda.

Chi scrive si propone, non appena ne avrà la possibilità, di sottoporre agli Italiani larghi estratti degli interventi al congresso, anche per vedere se si possa in Italia alimentare una intelligente politica di opposizione all’estremismo dei gruppi organizzati ebraici. I quali ultimi, tra l’altro, per motivi non facilmente comprensibili, sembrano essere favoriti dal governo Berlusconi, soprattutto nella persona del ministro Frattini che ogni anno venendo in America tiene ad incontrarsi con gli esponenti dell’AIPAC e delle altre organizzazioni conservatrici israelo-americane, ma finora ha ignorato il valore e l’esistenza di ‘J Street.’ e della sua base pacifista.

La rivoluzione egiziana e gli ebrei intelligenti

(13 febbraio) - Sono abbastanza malridotto e a letto con febbre alta, ma il minimo che sento di dover fare e' di aiutare per quel tanto che mi e' possibile la diffusione del seguente messaggio dell'Organizzazione J Street, quella degli ebrei americani intelligenti che vogliono la pace, dopo la defenestrazione di Mubarak:

We applaud the bravery of the Egyptian people who have inspired the world through their nonviolent movement to secure an Egypt that guarantees representative government, opportunity and dignity.

The cries of the Egyptian people for freedom and democracy have echoed across the globe with people of all races, religions and backgrounds who have known oppression and tyranny. We have all been inspired by the courage of those who, against all odds, took to the streets and changed the world – in particular, the younger generation which has led the way, seeking not only greater freedom but a better future for themselves and their families.

We hope that the military council which has taken control of Egypt will fulfill its commitment to hold elections and manage a smooth and rapid transition toward democracy and civilian rule, in keeping with the nonviolent spirit of the people on prominent display before the world these past few weeks.

Today, a new chapter opens in the history not just of Egypt, but of the Middle East. We pray it is a chapter rooted in freedom, dignity and respect for others. As Americans, Jews, and friends of Israel, we hope as well it is a chapter rooted in peace, and that the treaty between Israel and Egypt remains, as it has been, a bedrock of stability in a volatile region.

The epic changes underway in the broader Arab world have important implications for Israel, beyond simply its bilateral relationship with Egypt, as well as for the United States. It is now even more imperative to seriously pursue a resolution to the Israeli-Palestinian conflict. Former Prime Minister Ehud Olmert provided the following advice this week to his successor Benjamin Netanyahu in light of events in Egypt: “Don’t wait. Move, lead and make history. This is the time. There will not be a better one.”

The tides of history are with those seeking their freedom, and it is imperative for the United States and Israel to work proactively to achieve a two-state solution to the conflict. Today’s news from Egypt only increases the urgency, making clear once again that in these historic tides, an unsustainable status quo will not hold.

L'eruzione del vulcano islamico e Israele

(6 febbraio) L’agitazione del mondo arabo è incominciata precisamente all’indomani del crollo di ogni speranza di composizione del conflitto palestinese, una speranza che, dopo sessant’anni di delusioni, era stata sollevata dall’elezione del presidente nero negli Stati Uniti e dai suoi interventi in favore della pace. Questa coincidenza non è stata segnalata da nessun “media” americano, che come sempre, applica il silenziatore ogni volta che si tratti di menzionare eventi in qualche maniera sgraditi alla sezione fondamentalista della comunità israelo-americana.


Sull’internet invece la coincidenza viene ampiamente dibattuta, sostanzialmente lungo due linee: gli arabi sono in rivolta per questa ennesima frustrazione (la linea è sostenuta dai sostenitori, ebrei e non ebrei, del processo di pace); non è invece vero nulla, la rivolta è determinata dalle condizioni di fame in cui le popolazioni sono tenute dai governi conservatori arabi. Ma evidentemente non c’è incompatibilità tra le due argomentazioni. Può darsi benissimo che la scintilla sia stata determinata dalla scomparsa delle speranze di pace e l’incendio alimentato dalle condizioni insopportabili della maggior parte delle popolazioni mediorientali.


Senza prendere in nessuna considerazione le cause delle sommosse, i commentatori che si preoccupano esclusivamente della situazione di Israele hanno preso l’occasione per risollevare sul New York Times, in un ampio articolo-appello sulla pagina degli editoriali, il ciclico lamento per la eventualità che Israele si trovi nuovamente circondata da regimi ostili. Però dell’idea che l’ostilità possa essere mitigata o addirittura cancellata da qualche vera, sincera, concreta mossa per condurre alla fine la tragica saga dell’occupazione del territorio palestinese nemmeno una parola.


Le uniche voci che dagli USA abbiano invocato un nuovo sforzo di pace presentandolo non come impulso umanitario, ma per analisi obbiettiva delle circostanze che governano lo svolgersi della situazione sono state, come altre volte in situazioni simili, quelle del columnist Thomas Friedman e quelle del suo collega Roger Cohen, tutti e due di origine israelita e tutti e due del New York Times; ma con altrettanta regolarità questi significativi interventi sono stati ignorati dal resto della stampa americana (Friedman è stato uno dei due autori, insieme a un governante idealista dell’Arabia saudita, del piano per un riconoscimento collettivo di Israele da parte del mondo arabo in cambio di una reale decisione di Israele di rendere giustizia al popolo palestinese, e questo piano è da tempo uno degli ingredienti diplomatici più positivi di ogni sforzo per una soluzione del conflitto).


In Israele, finora la reazione ufficiale alla possibilità di un crollo dei regimi collaborazionisti arabi è esattamente l’opposto di quella auspicata da Friedman; “dobbiamo guardarci intorno con gli occhi ben aperti,” ha detto in parlamento il premier Bibi Netanyahu. “La base della nostra stabilità, del nostro futuro e del mantenimento o allargamento della pace consiste nel rafforzare la potenza dello stato d’Israele.” Voci di opposizione, come quella della leader del partito di centro-destra Kadima, Tzipi Livni, si stanno levando, ma fievoli e per il momento scevre di conseguenze pratiche.


Ora è da vedere come la situazione in Egitto, chiave per un qualsiasi sviluppo di reale rinnovamento della situazione, si svolgerà nello scontro tra il pugno di ferro di Mubarak e la popolazione. Io ricordo le manifestazioni di delirante entusiasmo e prorompente forza rivoluzionaria che affiancarono da parte della popolazione l’elemento militare capeggiato da Naguib e poi da Nasser nella lotta contro il protettorato inglese, di cui fui testimone e relatore come inviato. Se questo impeto, analogo a quello che portò alla redenzione dell’Iran, esiste ancora, una trasformazione del quadro mediorientale non potrà essere arrestata; nel caso contrario, si sarà trattato soltanto di uno dei tanti inutili conati di rinnovamento che da decenni si accendono e si spengono sopra panorama islamico.

Un altro termometro di strordinario interesse, e del tutto nuovo, della situazione sara' il primo congresso nazionale di "J Street", l'organizzazione degli ebrei americani non fanatici e non fondamentalisti, nonche' strenuamente favorevoli alla pace, che si terra' alla fine di questo mese a Washington. Nata solo da pochi mesi come contrappeso alle entita' israelo-americane che, come la famigerata AIPAC, appoggiano il governo israeliano qualunque sciocchezza o atrocita' esso commetta, essa conta adesso decine di migliaia di aderenti. A differenza del governo americano che comincia a rendersi conto dell'importanza di questa nuova voce anche sul piano interno, nessuno degli alleati dell'America soggetti all'influenza del fondamentalismo israeliano (tra questi, ovviamente, il governo italiano) ha voluto finora prendere atto dell'esistenza di questa imbarazzante voce antiortodossa. "Manhattan Express" intende raddoppiare i suoi sforzi perche' essa venga ascoltata, e tanto per cominciare sara' presente al congresso per renderne conto ai suoi lettori.