Sempre più fantomatica la pace in Palestina

(8 novembre) Per celebrare quattro giorni fa il quindicesimo anniversario della morte del premier israeliano Yitzhak Rabin, l’ex presidente Clinton ha pubblicato un vasto e commosso articolo in cui, dopo aver commemorato la figura del solo personaggio di governo israeliano che si sia mai veramente battuto a fondo per la pace con i palestinesi, ucciso a sangue freddo da un terrorista della destra israeliana, afferma che esistono oggi indistintamente tutti i requisiti necessari per realizzare il sogno di Rabin, cioè la pace, e li enumera minuziosamente, uno ad uno. Al termine di tale enumerazione Clinton non dice tuttavia che questa pace tanto ovviamente realizzabile ha un difetto: non c’è.

Inoltre, lo stesso Clinton continua dopo la sua totalmente ottimistica diagnosi della situazione a soggiacere ad un misterioso mutismo, perchè non presenta neppure la minima, e sia pure timida, sia pure parziale ipotesi sul perchè di questa assurdità tanto flagrante: una pace che in teoria esiste, ma in pratica no. Nè appare neppure lontanamente prossima ad esserci. Un’ipotesi che per esempio potrebbe saltare agli occhi di Clinton, dato che egli sta celebrando un uomo di pace e nel farlo ricorda che costui venne fatto fuori a revolverate da un estremista della destra israeliana appunto per i suoi sforzi in pro della pace, sarebbe il supporre che la pace sia tuttora resa irraggiungibile dalla destra israeliana. Ma Clinton è tanto circospetto da non azzardarsi, ohibò, a proporre assolutamente nulla.

Ma che ne dicono gli altri, i commentatori americani? Anche lì, neppure un fiato. Peraltro nelle loro corrispondenze da Israele i corrispondenti osservano che, in quanto icona nella narrativa storica di Israele,la figura di Rabin in questi ultimi anni si è progressivamente sbiadita, e che oggi quelli che celebrano l’anniversario della sua morte sono sempre di meno, e che i valori rappresentati da Rabin pesano sempre di meno nella coscienza della collettività. Il corrispondente del Christian Science Monitor da Israele sottolinea per esempio che lo storico partito politico della sinistra ebraica, il laburista, di cui Rabin è stato uno degli ultimi grandi esponenti, è passato dal controllare al tempo di Rabin un terzo del parlamento israeliano, a controllarne il dieci per cento. In realtà la sinistra conta oggi, in Israele, meno che nulla. L’unico altro erede del partito laburista, il presidente dello stato, Shimon Peres, non ha alcuna voce e di lui si è scritto che pur di non perdere l’auto lunga nera dei governanti israeliani sarebbe pronto a prostituire non solo se stesso ma anche la sua vecchia nonna.

Altri commentatori israeliani spiegano che il definitivo predominio della destra e degli avversari della pace sembra assicurato sia da quella sostanziosa parte della popolazione israelita, perlomeno 300.000 persone, che si è già permanentemente installata nei territori abitati dai palestinesi, ai quali essi dovrebbero essere restituito in teoria da qualsiasi accordo di pace; e sia dalla sicurezza di cui gli israeliani sembrano alfine godere in virtù del muro che i governanti della destra hanno eretto a loro protezione al margine del territorio abitato dai palestinesi, nonchè dal gabbione in cui la stessa destra è riuscita ad imprigionare, nella frazione di Gaza, gli elementi attivi della resistenza.

Insomma, l’icona che oggi in realtà riflette i valori del popolo palestinese non è più Rabin, il morto ammazzato, ma è caso mai Ariel Sharon, che stroncato da un colpo apoplettico giace in coma cioè nella più perfetta immobilità e indifferenza, uno stato quasi simboleggiante quello che prevale oggi in Israele; Sharon il “macellaio”, l’uomo riconosciuto dalle Nazioni Unite colpevole di genocidio per lo sterminio di uomini donne e bambini nei campi di concentramento palestinesi di Sabra e Shatila; l’uomo, infine, a cui è stata dovuta in parte l’ideazione e in pratica la realizzazione della strategia della muraglia e della gabbia, con le quali il popolo arabo della Palestina è stato permanentemente ridotto in un impotente stato di asservimento.

Che dire, poi, dello stato di paralisi quasi equivalente in cui è caduta anche l’amministrazione del presidente Obama, cioè la nazione senza il cui appoggio e aiuto Israele difficilmente potrebbe continuare a realizzare la sua politica di apartheid e di illegalità internazionale? Dire che il povero Obama, che aveva presentato al mondo iniziative di pace in Palestina tanto coraggiose, è bloccato dalle stesse forze misteriose che hanno costretto al mutismo nel suo articolo il suo predecessore democratico, Clinton, è un altro di quei tabù della vita politica americana - il cosiddetto fenomeno dell’elefante nel salotto - la cui presenza da nessuno vuole essere riconosciuta.

E’ lecito fare invece l’ipotesi che non solo l’ importante “lobby” del fondamentalismo ebraico americano, una organizzazione di cui è stata ad abbondanza dimostrata la forza politica, ma lo stesso Congresso americano, alla cui approvazione ogni realizzazione di Obama è subordinata, siano tra le forze che azzerano qualunque conato di pace dell’attuale presidente americano. Clinton nel suo articolo non ha neppure menzionato questo singolare colore ebraico del Congresso americano, un carattere tanto più evidente, in quanto le elezioni per il rinnovo di buona parte del Congresso erano avvenute solo due giorni prima del suo articolo, e i loro risultati avevano ancor più marcato la detta colorazione.

In America, infatti, i risultati delle “elezioni di medio termine” sono stati analizzati nella maniera più approfondita e capillare, cosicchè si è appreso quanti, tra i nuovi membri del Congresso e tra i nuovi Governatori degli Stati sono di destra e quanti di sinistra, quanti i neri e quanti i bianchi, quanti gli uomini e quante le donne, quanti gli omo- e quanti gli eterosessuali, quanti gli avvocati e quanti i businessmen e via dicendo. Ma quanti siano gli ebrei o quanti i pro-ebrei le cui vittoriose campagne elettorali erano state finanziate dalla “lobby” israelo-americana legata alla destra di Israele, nessuno ha trovato necessario, o fattibile, di andarlo a scoprire e di dirlo.

La crescente forza israeliana nel nuovo Congresso americano, invece, viene stranamente discussa in Israele, dove in genere si ha più coraggio di parlare apertamente delle cose di quanto se ne abbia negli Stati Uniti. Essa è stata per esempio apertamente ed entusiasticamente proclamata da un deputato dell’ala estrema del partito di destra Likud, (a cui appartiene il premier Netanyahu), Danny Danon, il quale ha detto: “Un enorme afflusso di nuovi membri della Camera e del Senato americano a Washington [determinato da queste elezioni], include dozzine di stretti amici Israele i quali porranno freno alle sempre dubbie, e talora pericolose, iniziative politiche enunciate da Obama nei primi due anni della sua presidenza.”