Al di qua (2)

(27 novembre) “Considerate la vostra semenza:/ “Fatti non foste a viver come bruti,/”Ma per seguir virtute e conoscenza.”


E’ una delle più famose e belle terzine dantesche. Peccato che sia anche errata e non faccia che rafforzare uno dei più antichi. e dei più dannosi, pregiudizi; specificamente ai fini di quella “conoscenza” che il poeta invoca con tanto calore.


Il pregiudizio riaffermato da Dante è che l’uomo sia qualcosa di fondamentalmente diverso dagli animali, cioè dai “bruti”, perchè questo è il significato della parola che egli impiega. Ora, non esiste un atomo di realtà a conferma di quest’idea, e tutto quello che vediamo intorno a noi ci fornisce, invece, una quantità di elementi a sua disprova.


L’errore ha tuttavia sempre avuto l’effetto di mettere gravemente fuori strada il pensiero razionale, come è accaduto per vari altri dello stesso tipo smentiti già da qualche secolo, che mettevano l’uomo al centro dell’universo. E’ stata un’orgia di antropomorfismo di cui si sono sempre fatte complici le religioni e in maniera speciale quella cristiana (la cui inanità ho già avuto occasione di commentare, vedi la mia nota “Al di qua (1)”, del 23 ottobre scorso), e che per fortuna si va avvicinando alla fine.


Di tutti i pregiudizi, di origine biblica o istintiva o filosofica o altra ch
e sia, quello di una superiorità innata dell’uomo rispetto alle bestie è il più radicato e il più antico, e forse per questa ragione è uno degli ultimi a cadere.


Ogni giorno che passa appare chiaro come l’idea in questione sia falsa, grazie all’evidenza proveniente dai più diversi campi dello scibile, dalla biologia evolutiva alla zoologia e dall’eziologia alla psicologia cognitiva.

Le ricerche più recenti smentiscono innanzitutto l’affermazione di Dante, che gli animali sono incapaci di “virtute,” sprovvisti, cioè, di senso morale. Le tendenze alla base di ogni postulato morale, ossia l’altruismo e il senso di comunità, sono invece empricamente riscontrabili, perlomeno in germe, in ogni essere vivente. Curiosamente, proprio per effetto di un adattamento genetico, cioè nel senso invocato, sempre a sproposito, da Dante quando emette il suo accorato appello: “Considerate la vostra semenza.”


E’ interessante tuttavia constatare che mentre la prima delle due caratteristiche fondamentali di cui Dante dà erroneamente la privativa all’uomo, cioè la “virtute”, è oggetto di una sempre più vasta indagine scientifica negli animali, la seconda, che Dante
indica come “conoscenza” (anzi lui impiega la parola fiorentina più arcaica, “canoscenza,” che le versioni attuali del suo poema generalmente modernizzano), non è stata ancora fatta oggetto dell’indagine che meriterebbe.


E’ ben vero, come dice Dante, che negli esseri umani il desiderio di sapere è più potente che in qualunque altra specie, in ovvia corrispondenza con la crescente complessità di cui l’evoluzione ha dotato il loro cervello; questo desiderio può giungere anzi a quell’estrema, dolorosa e quasi ossessiva passione, che i filosofi hanno chiamato la “desperatio veri,” la bramosia sempre inappagata di conoscere il vero. Ma ciò non significa affatto che, almeno come spinta iniziale, questo sentimento non esista anche negli altri animali; io non dubito che si tratti di una questione di quantità, non di qualità.


E’ questo un bellissimo campo per una ricerca che non è stata ancora adeguatamente intrapresa. A me sembra molto probabile che all’origine di ogni desiderio di conoscenza ci sia la necessità, esistente in ogni essere animato, di trovare una spiegazione dell’ambiente fisico in cui si trova: la domanda “che cosa è tutto questo?” è certamente la prima e la più fondamentale che ogni essere si pone venendo al mondo.

L’istintiva pretesa umana di collocarsi in una posizione speciale per quanto riguarda l’esercizio delle capacità conoscitive ha certamente dei vantaggi pratici, ma ha anche il risulato di indurci a credere che, a differenza degli animali, noi siamo in grado di arrivare prima o poi alla rivelazione del “mysterium supremum”, il significato di tutto quello che ci circonda; ci mette ossia sulla strada del non capire assolutamente niente, mentre altrimenti alcune cose fondamentali riusciremmo a capirle. La nostra conoscenza vera è tutta lì – “what you see is what you get” – ma noi facciamo di tutto per non vederlo.