Al di qua (1)

(23 ottobre) Qualche giorno fa Woody Allen ha compresso con mirabile economia l’intera sua visione del mondo in queste parole: “What you see is what you get,” cioè quello che vedete è tutto quello che c’è. Poi ha detto che quanti credono che ci sia qualcosa d’altro, come per esempio ciò che viene offerto dalle religioni, sono fortunati perchè in genere trovano in ciò qualche conforto; ma lui non è uno di questi.

Io gli ho chiesto di elaborare un po’ questi concetti ma lui non ha voluto farlo. Allora cercherò di farlo io, per la semplice ragione che la sua proposizione principale mi trova consenziente al cento per cento. Non sono invece precisamente d’accordo sull’idea che le religioni rappresentino necessariamente un conforto, e partirò da questa divergenza per aggiungere qualche parola.

Innanzitutto, c’è una quantità tale di cose da vedere intorno a noi, che non capisco perchè si debba andarne a cercare dell’altra. Ma se ne vogliamo ancora, basta alzare gli occhi al cielo e pensare agli elementi più rudimentali dell’astronomia per essere, nel contempo, sopraffatti da un senso di meraviglia e stupore. Poi c’è moltissima roba che non vediamo, ma sappiamo che esiste; e anche questa ci offre un vasto campo su cui esercitare profittevolmente il pensiero.

E’ ben vero che anche delle cose che vediamo, o che supponiamo ci siano, non comprendiamo in fondo assolutamente nulla. Questa, anzi, è l’unica ragione per cui abbiamo il diritto di accettare le fantasie religiose: le une in certo senso valgono le altre (mi pare che il primo a sostenere questa equivalenza fu Sant’Agostino).

Purtroppo, però, le idee consolatorie derivanti dalle religioni sono in genere molto insipide. Di tutte le religioni che io conosco, forse la consolazione più concreta è quella maschilista proposta dalla religione mussulmana, le giovani urì che ci diletteranno in paradiso; ed è tutto dire. Il paradiso offerto dalla religione cristiana è di una vacuità e di una noia senza pari. Non un solo verso di Dante quando descrive l’empireo è passato alla storia. Le religioni orientali ci offrono di svincolarci finalmente dall’esistenza dopo un vasto numero di reincarnazioni; ma il conforto successivo non è chiaro. La religione ebraica, perlomeno, ha il buon senso di non assicurare nessun paradiso.

D’altra parte, provate voi stessi ad evocare delle consolazioni ultraterrene migliori, e troverete difficile anche immaginarle; a meno che non non siano quelle stesse che sperimentiamo nella vita, ciò che rappresenterebbe una contraddizione in termini. Ma se le trovate, fatemele conoscere.

Io sospetto però che la religione abbia anche un lato intrinsecamente negativo. A forza di ricorrere ad essa, a forza cioè di dirottare verso di essa una parte dei nostri pensieri, diminuiamo la quantità di attenzione che invece dovremmo rivolgere alle cose che ci circondano, sia che crediamo di capirle, sia che no; e penso che se in luogo delle pratiche religiose si organizzassero sforzi deliberati, individuali o collettivi, di apprezzamento della vita, questo finirebbe coll’avere un effetto consolatorio non minore delle astrazioni mistiche.

Una conseguenza dell’idea “what you see is what you get” è, d’altra parte, l’accento che essa mette sul fatto che sia noi, che tutto quello che ci circonda, siamo parte della natura. Questo a sua volta può condurci a qualche ipotesi interessante sulla nostra funzione nel mondo, e sulla differenza che esiste tra noi viventi e ciò che non vive. Se mi sentirò di farlo ne parlerò un’altra volta.