Uno sguardo circospetto al Medio Oriente

(16 ottobre) In un tentativo di fare il punto della situazione mediorientale, chi scrive è colpito dall’aggravamento di alcuni motivi di ingovernabilità da tempo avvertibili nella società israeliana, aggravamento che arriva oggi ad infirmare persino importanti manifestazioni esterne di quello Stato. Un esempio è il discorso, aggressivo e sconnnesso, presentato alla riapertura annua dell’Assemblea generale dell’ONU dal ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman per indicare nelle grandi linee, com’è di prammatica, gli indirizzi politici della sua nazione, e che è stato ripudiato ufficialmente, come privo di qualsiasi rappresentatività dei programmi politici nazionali israeliani, a poche ore di distanza dal premier dello stesso governo, Benjamin Netanyahu. Un simile caso di politica schizoide non si era mai registrato all’ONU.

Netanyahu, che era contemporaneamente impegnato in uno dei momenti più critici dell’azione diplomatica che Israele non ha mai cessato di svolgere per cementare le sue istanze di sopravvivenza, ha peraltro esibito lui stesso gli effetti di una disfunzione congenita del suo governo.

Si trattava della ennesima tornata dell’intermittente, ormai quasi ventennale “processo di pace” con rappresentanti più o meno autorizzati della popolazione araba, per una sistemazione bi-statale del territorio palestinese, una tornata assecondata però questa volta con tutto il suo possibile potenziale politico anche dall’amministrazione americana del presidente Obama. La soluzione bi-statale è stata solo recentemente accettata in principio da Netanyahu e dal suo governo di coalizione, del quale tuttavia fanno parte le fazioni ultra-religiose e il movimento russo-ebraico di Lieberman.

Semplicemente per poter continuare il dialogo, Netanyahu ha fatto al suo interlocutore
la strana richiesta di riconoscere formalmente e in via pregiudiziale allo stato d’Israele il carattere di “stato ebraico”. Richiesta difficilmente comprensibile, ma non a chi conosca il significato e il peso che ad essa viene annessa dalla componente estremistica su cui si regge il governo Netanyahu.

Per questa, il riconoscimento ufficiale di un carattere teocratico ed etnico del governo israeliano dovrebbe essere, sui tempi medi, la leva con cui forzare la popolazione araba della Palestina, inclusa la minoranza che già fa parte della popolazione d’Israele (nella misura del 20 per cento), ad accettare uno status di second’ordine che per il momento non viene specificato. Esso è tuttavia facilmente intuibile per via di comparazione con quello assegnato alla popolazione di Gaza.

Si tratta di uno del capisaldi del movimento per uno stato autoritario d’ispirazione post-sovietica ‘Yisraeli Beiteinu’ (‘Israele è casa nostra’) di Lieberman, che, in alleanza ufficiale con gruppi minoritari ultra-religiosi e “de facto” con il gruppo anarcoide e potenzialmente insurrezionale dei 300.000 coloni occupanti illegalmente la zona transgiordana della Palestina, costituisce una delle colonne portanti del governo Netanyahu.

Successivamente l’ambasciatore d’Israele a Washington ha cercato di chiarire, in un articolo di giornale, la natura di questa richiesta al popolo palestinese, giustificandola come una carota che la componente neo-moderata del suo governo non potrebbe fare a meno di porgere alla componente estremistica di Lieberman per poter avanzare nel negoziato. L’idea che una simile proposta di auto-castrazione, che richiama in certo modo alla mente la disperata offerta di “bantustan” pseudo-indipendenti fatta alla popolazione negra nell’ultima fase del regime di apartheid in Sud Africa, possa essere accettata dai palestinesi, e sia pure dal loro rappresentante più mite e disposto alla collaborazione, il presidente "de facto” Abu Mazen, sembra avere le stesse possibilità di successo che ebbe a suo tempo quella messa sul tavolo dai coloni bianchi sudafricani.

Se anche questa tornata negoziale è destinata a fallire, la situazione che sembra delinearsi per la Palestina è di due aggregati umani ugualmente dissociati nel loro interno, in una strana simmetria il cui significato antropologico e politico per il momento sfugge.

Da una parte c'è un popolo ebraico sostanzialmente diviso in due tronconi, uno moderato e presumibilmente animato da intenzioni di convivenza pacifica con gli arabi, l’altro, predominante, deciso ad imporre a tutti i costi una signoria teocratica sull’intero territorio biblico quale precedeva la seconda distruzione del Tempio. Di fronte a questi due tronconi c’è un popolo palestinese ugualmente diviso in due: il gruppo minoritario che finora ha favorito una trattativa con gli ebrei, illegalmente rappresentato sulla sponda del Giordano da un uomo che porta abusivamente il titolo di presidente; l’altro, di base a Gaza, legittimamente rappresentato e controllato da un movimento di resistenza massimalista che finora non ha mai voluto rinunciare, almeno in linea di principio, all’obbiettivo di espellere totalmente gli ebrei.

Attorno a queste società tronche volteggia in questo momento l’individuo che si è collocato alla testa del movimento di Jihad in difesa dell’Islam, nel quadro della crociata anti-islamica sferrata dall’occidente le cui origini risalgono nella maniera più chiara al conflitto palestinese. E' il presidente dell”Iran Ahmadinegiad. E’ anche l’uomo che ha inserito nell’equazione l'incognita atomica, di conserva con Israele e con il Pakistan. In nome proprio, e in esplicita rappresentanza della nazione araba, la Siria, con cui il suo Paese ha un accordo di azione, Ahmadinegiad sta visitando ufficialmente in Libano la zona calda del confine con Israele. Nello stesso Libano, il movimento Hezbollah, finanziato e armato dall’Iran e Siria, si sta alacremente riorganizzando e riarmando dopo il confronto con Israele del 2006. Esso dispone attualmente, secondo informazioni americane, di 40.000 missili in luogo dei 14.000 posseduti quattro anni fa.

E’ molto difficile immaginare che cosa presagisca questa situazione, all’interno dell’immenso arco di instabilità che va dalla Somalia al Pakistan e in vista delle guerre che già impegnano l’America e l’occidente in Afganistan, in Iraq e in Pakistan. Ma perlomeno a chi scrive, essa non ispira pensieri particolarmente lieti.