Ancora pena di morte

(6 ottobre) L'articoletto "La pena di morte in Italia" (25.09.10) mi ha procurato molte proteste, alle quali vorrei rispondere brevemente. Eccettuando però quelle di carattere teologico (“la santità della vita”) che appartendo, per definizione, a una logica ultraterrena, non considero suscettibili di discussione terrestre.

Tutte le obbiezioni che mi sono state mosse si basano su uno di due argomenti, o su tutti e due. Il primo è un’asserita scarsa forza dissuasiva e preventiva della pena capitale sull’attività criminosa. E’ una insufficienza che non è stata mai possibile dimostrare; comunque, anche se dimostrata, sarebbe pur sempre meglio una forza insufficiente che nessuna forza. L’argomento non è, d’altra parte, il principale dei due.

L’altro consiste nella gravità unica di una pena che, nei casi in cui è il risultato di un errore giudiziario, è, a differenza di tutte le altre, irreparabile.

È un argomento importante; non è, tuttavia, un argomento contro la pena di morte. E’ un’argomento contro gli errori giudiziari quando conducano alla pena di morte, e perciò esso va svolto, ed effettivamente viene svolto, in questi termini, e non nei termini di un’inaccettabilità pregiudiziale della condanna a morte.

Innanzitutto bisogna scartare come un “non sequitur” l’idea che il numero delle ingiuste condanne a morte sia deducibile dal numero relativamente alto dei casi in cui l’ingiustizia viene scoperta per i condannati in attesa di esecuzione, e che sono i casi generalmente riportati dai giornali. Caso mai questo numero elevato indica il contrario, ossia che le cautele che vengono prese, e che sono straordinariamente abbondanti per lo meno nella procedura americana, per evitare l’errore quando sia stata comminata la pena capitale, funzionano effettivamente.

Lo stesso dicasi per un’altro aspetto caratteristico della sorte dei condannati nei penitenziari americani, sia federali che statali – per inciso, non tutti gli stati della federazione applicano la pena di morte – e cioè il fatto che i “bracci della morte” rigurgitano di detenuti che vi risiedono per tempi incomprensibilmente lunghi. La media è di una decina d’anni prima dell’esecuzione, che spesso diventano quindici o venti.

In Europa questa lunghissima attesa, anch’essa abbondantemente pubblicizzata dalla stampa e dai film, viene spesso giudicata il risultato di una specie di sadismo delle autorità penali americane. Invece si tratta, anche qui, esattamente del contrario, cioè del tempo occorrente per riesaminare tutti i possibili difetti procedurali e vagliare, man mano che vengono presentati, tutti i possibili elementi di fatto a favore di una revisione o commutazione della sentenza. Questo tempo è evidentemente tanto più lungo quanto più numerosi e meticolosi siano questi riesami.

All’atto pratico, il filtro rappresentato da queste procedure cautelative fa’ sì che il numero dei giustiziati vittime di un errore è infimo. Il che non significa che non ve ne siano. Ma il loro numero è diminuito attraverso il tempo, proprio per effetto della meritoria campagna contro l’errore giudizario, da non confondere, come dicevo, con la campagna contro la pena capitale. Ai progressi della medicina legale ha d’altra parte enormemente contribuito negli ultimi anni lo studio del “dna”, e non solamente per quanto riguarda i delitti sessuali.

Certo, il giorno in cui il numero delle vittime dell’errore sarà ridotto a zero è ancora di là da venire e magari non verrà mai. Non è tuttavia una ragione per abolire la pena capitale, così come l’impossibilità di ridurre a zero il numero incomparabilmente più alto degli innocenti travolti e uccisi dagli automobilisti ubriachi non è mai stata una ragione per abolire il traffico stradale.