I barboncini di Bush

(12 settembre) E’ da poco arrivato a New York il libro di memorie di Tony Blair e parecchia gente lo compra. Quando hanno chiesto a un tale perchè lo facesse, ha risposto: “Per vedere se spiega come abbia potuto fare una cosa idiota come l’invasione dell’Iraq.” Altri hanno dato una risposta simile.

Blair non è molto stimato in America, dove dal tempo del suo concorso all’invasione americana dell’Iraq viene spesso ricordato come “Bush’s poodle”, il “barboncino di Bush”. (Quanto a Bush stesso – il figlio, ovviamente – è aspettativa comune che gli storici lo collocheranno nel punto più profondo della graduatoria dei presidenti dal tempo di George Washington).

Veramente l’appellativo di barboncino spetta per la stessa ragione anche ad un’altro uomo di governo, Silvio Berlusconi, unico altro statista europeo occidentale a schierarsi fin dall’inizio con Bush e a coonestare la sua demenziale avventura bellica. Ciò che salva Berlusconi in America da qualsiasi soprannome è solamente il fatto che qui nessuno ne parla o lo conosce o lo prende o lo ha mai preso sul serio; anzi nessuno prende sul serio l’Italia da molti anni.

Quando Berlusconi si mise al fianco o piuttosto dietro a Blair che si era a sua volta messo dietro a Bush, mentre persone serie come il presidente francese e il cancelliere tedesco avevano annunciato il loro dissenso, il sottoscritto, che da qualche anno non scriveva più per i giornali italiani ma solo per pubblicazioni americane o libri, si precipitò in Italia per vedere se con le sue umili forze, e presso i pochi che ancora ricordavano il suo nome soprattutto da quando lavorava in America per Indro Montanelli, riuscisse in qualche modo a creare un moto di opposizione contro un passo che l’Italia, l’America, la Gran Bretagna e insomma l’occidente avrebbero pagato molto caro. Fu un fallimento totale.

L’ambiente intellettuale e politico a Roma ma anche in città meno addormentate come Milano e Torino si rivelò assolutamente ignaro delle ragioni che avevano motivato Bush, visto che la stampa, la televisione, i politici non gli avevano mai spiegato nulla (dato e non concesso che ne avessero capito qualcosa essi stessi). Uomini della levatura del mio amico Carlo Fruttero, famoso collaboratore del mio fratello scrittore Franco Lucentini, respinsero increduli i miei tentativi di chiarificazione – in particolare, come i ‘ neocon’ israeliano-americani avessero infinocchiato Bush, e come questi fosse scivolato verso la sua criminale impresa. (Principalmente per megalomania – glielo aveva ispirato Nostro Signore – ma in fondo per dimostrarsi più grande di suo padre, che aveva già bastonato Saddam Hussein, ma non abbastanza).

L’unica cosa che io riuscii a fare fu di pubblicare, insieme con Mario Segni, un appello agli Italiani sul giornale ‘La Stampa,’ che pochi lessero e ancor meno ascoltarono. Poi nè ‘La Stampa’ nè Segni nè altri vollero fare altro – l’affronto ai ‘neocon’ israeliti, in Italia come altrove, organizzati nelle loro influenti organizzazioni di propaganda, era troppo rischioso, anche se gli ebrei che la pensavano in senso opposto erano infinitamente più numerosi. Io me ne rivenni scornato a New York.

Tornando al libro di Blair, hanno particolarmente colpito i passaggi in cui l’ex premier inglese piange per il cattivo esito dell’invasione dell’Iraq e per “l’incubo che ne è derivato”; trova anche modo di dire che “anche lui ha un cuore” e che gli è tanto dispiaciuto per i morti e feriti. Però non dice una parola per scusarsi e nemmeno spiega, a parte il proclamarsi molto religioso proprio come Bush, perchè abbia preso una cantonata così gigantesca. Il New York Times ha ricevuto “on line” 296 lettere di gente che ha letto il libro, per il 96 per cento furiose. Tipica quella di un newyorkese che chiama Blair “viscido” e dichiara: “Il coinvolgimento della Gran Bretagna in Iraq è uno scandalo colossale, e non ha avuto altro effetto che di aumentare l’esposizione del paese al pericolo del terrorismo, come si è già visto.”

A quando le memorie di Berlusconi?