Il piano di Obama per il Medio Oriente

(14 settembre) Il meccanismo ideato da Barack Obama con l’accoppiamento diretto, o “link,” tra i negoziati per la pace in Palestina e la fine “simbolica” della guerra americana in Iraq (vedi piu' in basso il precedente articolo, “Obama: meglio tardi che mai”) è molto più dinamico e promettente di quello che può apparire a prima vista.

Non c’è dubbio che il round in corso di negoziati per la Palestina, dopo sessant’anni di fallimenti, ha una probabilità minuscola, per non dire microscopica, di concludersi positivamente, e nessuno s’illude del contrario. Non c’è nemmeno dubbio che la fine “simbolica” della guerra americana in Iraq – costituita dal ritiro immediato e già incominciato di quasi due terzi delle truppe americane, mentre il restante terzo dovrebbe astenersi da operazioni offensiva e solo aiutare in varie maniere le forze iraqene addestrate negli scorsi mesi e il governo irakeno –abbia una probabilità ancora più infima di evitare all’America una disfatta meno umiliante di quella del Vietnam. Neppure su questo punto Obama e i suoi si illudono.

Ma l’accoppiamento tra le due questioni permette di sperare in maggiori possibilità di successo sia per l’una che per l’altra. Se il negoziato israelo-palestinese segnasse qualche progresso verso la desiderata soluzione – due stati indipendenti e pacifici sulla terra palestinese – o addirittura arrivasse al successo, questo si rifletterebbe istantaneamente in un miglioramento dell’umore generale del mondo islamico nei confronti dell’occidente, e questo miglioramento, a sua volta, faciliterebbe il raggiungimento dell’obbiettivo in Iraq: un paese relativamente stabile, e lo sganciamento definitivo delle forze americane per l’agosto 2011 che Obama ha comunque già promesso agli Stati Uniti.

A sua volta l’eventuale stabilizzazione dell’Iraq darebbe agli Stati Uniti un prestigio e una forza concreta nuove, che aumenterebbero la loro influenza anche sull’ arbitrato Israelo-Palestinese.

Il risvolto opposto di questo scenario indubbiamente ultra-ottimistico non avrebbe effetti negativi apprezzabili. Per la semplice ragione che le cose in tutti e due i settori, Palestina e Iraq, vanno già talmente male, che peggio difficilmente potrebbero andare. Nuovi fallimenti raggiungerebbero anzi punti critici, che imporrebbero, per forza di cose, soluzioni radicalmente nuove. Il naufragio stesso dei tentativi fatti in precedenza varrebbe a giustificare altri tentativi radicali.

Gli sviluppi effettivi che si profilano sull’orizzonte, nella visione del tutto realistica di Obama, sono due: insuccesso del negoziato per la Palestina, dato che il lato isrealiano, che da dieci anni, dominato dalle forze interne estremiste, non ha mai dimostrato, nonostante gli attuali atteggiamenti concilianti di Bibi Netanyahu, alcun interesse a una soluzione (una circostanza di cui gli Stati Uniti e l’opinione pubblica americana cominciano gradualmente a convincersi: "Perchè gli Ebrei non sono interessati alla pace" è il titolo di copertina di uno degli ultimi numeri di "Time"); e lo sfascio generale dell’Iraq dopo il ritiro totale degli occidentali.

Ma dato pure che questi due crolli si verifichino effettivamente, gli Stati Uniti uscirebbero dalle macerie largamente rafforzati.

Dall’Iraq, dopo l’immenso sforzo fatto per salvare l’unità del paese, si tirerebbero fuori comunque alla data prevista e a fronte alta, per andare a concentrare ogni loro mezzo su un altro quadrante di guerra, quello dell’Afganistan, o più precisamente della regione afgano-pakistana o Afpak, non lontana dagli arsenali atomici pakistani e dove è rifugiata Al Qaeda: questo è il versante che in realtà preme a Obama e che veramente, anzi clamorosamente, investe gli interessi nazionali occidentali.

Una volta fuori della mischia, gli Stati Uniti sarebbero pienamente liberi di spingere per soluzioni pragmatiche anche in Iraq: il distacco del Curdistan dalla nazione, per esempio; una divisione del rimanente, per quanto difficile, tra sciiti e sunniti, se non riescono a trovare un accordo (del resto questa è la soluzione secessionista sempre ritenuta inevitabile e favorita dal vice-presidente Biden).

Di fronte a Israele e ai Palestinesi, gli americani, che una volta tanto, avendo riconosciuto il “link” tra il conflitto tra i due avversari e il conflitto tra l’Islam e l’occidente, hanno evidenziato come il secondo giustifichi pienamente l’intervento americano nel primo, potranno, pure per la prima volta, prendere una posizione arbitrale veramente quidistante tra le due parti ed esercitarla con forza.

Con questo passeranno finalmente dalla parte del torto, occupata finora con il sostegno automatico d'Israele dovuto alla spinta interna della lobby israelo-americana, a quella della ragione e dell'onesto arbitrato. In questo quadro potranno essere prospettare, o addirittura imposte, nuove strade verso una soluzione. Per esempio con la chiamata dell’ Hamas, vera legale rappresentante del popolo palestinese, a partecipare alle trattative.

D’altra parte non esiste neanche, in astratto, solo la soluzione bi-statale per una sistemazione della Palestina: per esempio esiste, per quanto sgradita a Israele, la soluzione bi-nazionale, cioè di un unico stato laico, e non teocratico come quello installato dagli Ebrei in seno all’Islam, che accolga sia il popolo ebraico che quello palestinese. Ed esiste anche la soluzione giordana, se la dinastia hashemita che controlla Amman si risolvesse a dividere il potere con i palestinesi in cambio del recupero del territorio transgiordano e dell’acquisto di Gaza, che per la prima darebbe a questo stato uno sbocco sul mare.

Qualcuno ha detto che una quadratura del circolo palestinese è impossibile perchè essa implica due “piccole guerre civili,” una negli Stati Uniti, tra il governo di Obama e l’elemento israelo-americano che appoggia l’estremismo ebraico, l’altra a Gerusalemme, tra l’elemento moderato ebraico di maggioranza, e quello ultra-ortodosso. Ma anche qui la situazione sta lentamente cambiando per tutti e due i Paesi, come diremo in un altro articolo.